Capita di sentirsi fuori posto, e probabilmente capita anche che il luogo di riferimento senta al proprio interno elementi non conformi a se stesso. Prendete per esempio le malattie: sentiamo che dentro il nostro corpo c’è qualcosa che non va.
Ma tornando al luogo, ha senso ancora parlare di fuori posto?
“Viviamo in un’epoca in cui lo spazio ci si offre sotto forma di dislocazione”
- Michel Foucault
L’essere umano è mobile di natura, dunque, in condizioni fisiologiche ottimali, o spazio che occupa non è (e non potrà essere) sempre uguale.
L’essere umano non solo è mobile, ma crea cose mobili, distrugge e ristruttura cose immobili.
Così dicendo, il luogo si troverà popolato da molteplici esseri umani, con le loro creazioni e con le loro modificazioni dell’ambiente circostante.
Non ha senso parlare dell’immagine fissa e utopica di ciò che deve essere, giacché non potrà (mai) essere. È forse giusto visionarla, ma non ha senso parlarne, o meglio, non ha senso parlarne come evenienza concreta.
Nella realtà il caos dispone (e ha da sempre disposto) il mondo intero.
Prendiamo l’ipotetico (ma anche reale) esempio di due cartoline. Allontaniamoci dall’astratto e diamo delle immagini a questi oggetti.
La prima cartolina può contenere un golfo o comunque un paesaggio di una località marittima. Immaginate il mare che riflette i colori di un cielo azzurro e limpido. Immaginate le placide case e la placida spiaggia donare ulteriore grazia a questa immagine.
La seconda cartolina è invece più ipotetica e meno idealtipica, poiché non credo esista (o venga venduta) una cartolina con il paesaggio che sto per descrivere.
Immaginate una periferia grigia e fatiscente con un cielo coperto di nuvole, quasi come se avvolgessero l’intera figura in un fumo mefitico.
Entrambe evocano una sottesa sensazione verso i luoghi raffigurati. Che sia attrazione o repulsione, evocano qualcosa.
Ora immaginiamo letteralmente quei paesaggi, senza cartoline che le incornicino. Immaginiamoli fisicamente, con i loro odori e con i loro suoni. L’aria salmastra del mare e la quiete di quel pomeriggio, nonché il canto di qualche gabbiano in lontananza.
Per l’altra cartolina, l’aria pesante e probabilmente inquinata, un vento che infastidisce le orecchie con stridii di clacson provenienti dalla tangenziale.
Ora immaginiamo di trovare sul marciapiede del lungomare del primo paesaggio, la cartolina raffigurante la periferia. Viceversa, immaginiamo di trovarci in quella periferia e di vedere su un marciapiede la cartolina della tranquilla località di mare.
Quelle cartoline sono una sorta di metafora, dato che quelle immagini potrebbero provenire benissimo uno smartphone.
In qualche modo, abbiamo provato una condizione estrema di delocazione. La nostra mente è stata per qualche secondo catapultata in un luogo che in quel momento è esente dal nostro presente. Eppure noi lo abbiamo reso attuale con lo sguardo a un immagine. Con il pensiero, abbiamo per un attimo immaginato la sensazione di essere lì. Ecco, la delocalizzazione penso che sia uno dei superpoteri degli esseri umani. Secondo questo principio si muove gran parte della nostra esistenza e del nostro intrattenimento, dai dipinti al cinema, dalla letteratura e (perché no?) alla musica.
Luoghi immaginati, sentimenti reali. Cartoline di decadi passate, sentimenti attuali.
E così, la cartolina della località di mare ha tolto un poco di “periferia” alla periferia, così come la cartolina della periferia ha turbato la quiete di quel luogo pacifico.
Un’emozione può essere rinchiusa in uno spazio ristretto, delocalizzata e pronta per l’uso.
Ma tutto questo, è davvero fuori posto o integra la realtà?
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