La diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma si è aperta all’insegna degli esordi e delle piccole grandi storie. Paola Cortellesi arriva alla regia portando un carico emotivo non indifferente e, davanti alla macchina da presa, racconta una storia vera allora tanto quanto lo è oggi. “C’è ancora domani” trasmette tanta speranza, la stessa che viene tradita e lasciata come testamento per l’avvenire.
Quella eseguita dalla Cortellesi è una prima esperienza tutta carica di grandi consapevolezze, del resto vi era un carico di aspettative non indifferenti da dover sorreggere sulle proprie spalle. Lei è una di quelle poche attrici che riesce a spostare gli incassi al botteghino su ogni singola pellicola, sia da semplice interprete che scrittrice. In questa storia riesce a rafforzare tutto il suo riso amaro, narrando la vita in tutta la sua tragicomicità.
Siamo nel giugno del 1946, la scenografia è curata nei minimi dettagli per poter dare il giusto stimolo visivo allo spettatore: i manifesti, i graffiti, così come l’arredo urbano, diventano elementi in grado di comunicare la forza di un pensiero. Nulla è lasciato al caso mentre entriamo nella vita coniugale di Delia (Paola Cortellesi) e di Ivano (Valerio Mastrandrea). Lei si fa in quattro tutto il giorno, ma ha solo un piccolo difetto: “risponnere”. Piccoli istanti, piccole sviste che si fanno portatori di una violenza tanto manifesta quanto sottile.
“C’è ancora domani” è una pellicola che non parla semplicemente dell’abuso domestico, ma lo fa diventare parte integrante della stratificazione socio-culturale. Di generazione in generazione, in questo modo, si tramandano usi e modi di fare sotto l’inno del “si è sempre fatto così”. Di padre in figlio, di madre in figlia, si accettano silenziosamente atroci atti che – seppur in maniera ridotta – si continuano a perpetrare.
La Cortellesi, in conferenza stampa, ha sottolineato quanto la sua volontà fosse quella di dar voce a quelle donne che per lungo tempo hanno creduto fermamente di essere delle nullità. Ha raccontato della sua cara nonna che, pur essendo molto arguta, concludeva tutte le sue frasi con: “Ma cosa vuoi che ne sappia io?” sottostimano implicitamente la validità del proprio pensiero.
Senza starci troppo a soffermare se ciò possa essere definita una commedia o una tragedia, possiamo solo dire che è semplicemente la vita. Una serie di fatti che vanno scardinati per poter riuscire a parlare realmente di dignità, sentimento che emerge con maggior forza proprio sul finale. Non vi vogliamo svelare altri dettagli, vogliamo solo consigliarne vivamente la visione a quante più persone possibile. Perché noi ci auguriamo la stessa cosa che la compagine maschile del cast ha sottolineato durante l’incontro con la stampa: un rinnovo della sensibilità e un’educazione sentimentale che sia in grado di scardinare le logiche del possesso.
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