Non importa perché sono qui. È una storia travagliata, non vorreste saperla. La foresta è fitta, ci vago ormai da anni e va bene così. Però, ogni volta che scorgo dei segni decadenti di civiltà, rimango sempre sorpreso. Quel rudere sembra essere qui da tempi immemori, ma durante il lungo periodo che ho trascorso nella foresta non l’ho mai notato. Non sarei l’uomo impavido che penso di essere se non indagassi su questo curioso fenomeno.
Il muschio sembra aver conquistato parte delle pareti esterne, ma la roccia sembra ancora ben salda. Come immaginavo, la porta di legno ormai fradicio non è affatto difficile da aprire. Lo spazio è ristretto al limite dell’immaginabile, chi ha vissuto qui dentro deve aver usato questo rifugio solo per ripararsi sporadicamente e, al limite, dormire. Trovo impossibile che qualcuno possa passare più di un’ora chiuso qui dentro.
L’arredamento non è umile, è proprio inesistente: è presente solo un piccolo letto con un materasso sgualcito, una sedia e un tavolo. Sono rimasto ipnotizzato dal pulviscolo illuminato dal raggio di sole che cade da un buco sul soffitto. Il pulviscolo libra e si posa delicatamente sul legno marrone del tavolo. Sembra sussurrare una nenia irresistibile, una cantilena muta che mi spinge a controllare nell’unico cassetto presente nel tavolo.
Ho appena trovato un foglio scritto a mano, una scoperta che mi lascia davvero stupito. La scrittura è tonda e allo stesso tempo a tratti appuntita, è grande ma sembra comunque troppo piccola, una grafia che fornisce l’impressione di essersi generata di proposito per far trasparire tutti i difetti umani.
Il contenuto è alquanto enigmatico e a tratti contorto:
“Come può una sola canzone narrare di tutto? Come può una sola vita accogliere tutte le impressioni necessarie per giungere all'assoluto?
Luce di luna riflessa nelle pozzanghere d'autunno parlami in una nuova lingua, suggerisci nuovi dei da venerare laddove non è rimasto più nulla.
Cancella tutte le parole che ho scritto, per ricominciare dall'inizio... Di nuovo”.
Il pezzo di carta è scritto su entrambe le facce, dall’altra parte del foglio è presente un componimento in versi. Lo leggo e non ci posso credere. È la poesia smarrita che possono capire solo alcuni, anche se alcuni sono già abbastanza e forse troppi:
“Laddove s'è fermata l'ombra della meridiana,
si varca il limite e s'arriva oltre quest'infinita piana.
E così, senza più spazio e senza più tempo
non avrà più senso, il senso di smarrimento:
gli oggetti splendono tra stelle mute,
è il paradiso delle cose perdute”.
Negli ultimi duecento anni non ci avevo più pensato, ma ora è giunta l’ora opportuna. Per due secoli ho ingannato me stesso, o meglio, mi sono ingannato per quel lasso di tempo che ho creduto essere due secoli. La verità è che neanche io so perché ho ceduto al richiamo della foresta, ma ora ricordo che non è reale e non lo è mai stata. O meglio, è stata reale per certi versi (anche nel senso poetico del termine), ma non lo è mai stata completamente.
Forse questo rudere è l’unica cosa vera, o forse… No. Assorto nei miei pensieri vengo distratto da un fortissimo odore di fumo. Balzo in avanti verso la porta e la mia paura diviene concreta. La foresta che mi ha accolto tutto questo tempo ora è in fiamme. Il fuoco brucia imperterrito e insensibile divorando alberi secolari. Non so dove nascondermi, non so dove ripararmi, forse questa è la fine. Ma so che non può essere una coincidenza, so che aver recuperato la consapevolezza dell’inesistenza di questa realtà ha causato in qualche modo questo fenomeno. Senza remore ora guardo immobile l’incendio che divampa e lancio nel fuoco il foglio sgualcito che ho ritrovato.
Cancella tutte le parole che ho scritto, per ricominciare dall’inizio… Di nuovo.
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