venerdì 31 maggio 2024

#DivinaCommedia: Canto III - Purgatorio

Immagine presa dal web
Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.

Oggi analizziamo il terzo canto del Purgatorio. Dopo aver attraversato tutto l’Inferno, siamo finalmente giunti al momento di purificazione, anche se cè ancora del cammino da fare.

Iniziamo finalmente a parlare con una delle anime qui presenti, che ci spiegherà cosa accade a chi è destinato a stare ancora all’antipurgatorio e per quanto tempo.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,

i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,

lo ‘ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio
che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga.

Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.

Io mi volsi dallato con paura
d’esser abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;

e ‘l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.

A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al
quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Illustrazione di Gustave Doré
Ci rendiamo conto che più procediamo verso il Paradiso, più sarà difficile spiegare con le parole quanto ci viene narrato da Dante. Lo stesso possiamo dire del nostro cammino spirituale, perché ci sono tappe o eventi della nostra vita che non riusciamo a raccontare, possiamo solo mostrarli. Comunque, stando su un articolo di un blog, dobbiamo almeno tentare e quindi eccoci qui a commentare scrivendo.


Dopo la sgridata di Catone, tutte le anime di disperdono andando verso le loro strade e qui Dante si accorge di essere l’unico ad avere un’ombra, quindi si sente solo e abbandonato da Virgilio, non vedendolo. Rimane fermo, con la testa che si gira e rigira alla ricerca della sua Guida, chiedendosi chi mai l’avrebbe accompagnato ora. Osserva bene la montagna, il sole che fiammeggiando rosso la illumina, e ancora si volta, trovando finalmente il suo Maestro.
Notiamo come Virgilio abbia arrestato leggermente il passo, per ponderare quanto accaduto, mostrandoci come la sgridata di Catone lo abbia colpito nella sua umiltà.

Virgilio, che ben ha capito lo stato di Dante, gli chiede: “Perché stai dubitando che io non continui a guidarti?”. Sapendo che il dubbio di Dante nasce dalla mancata ombra, Virgilio gli spiega che per volontà divina al momento della morte, i corpi giacciono nelle proprie tombe e quelli che vengono dall’altra parte sono come delle copie, che pur non proiettando ombre, continuano a sentire freddo, gelo, torture e gioie. Come questo accada, però, non è dato sapere dagli uomini.

C’è poi una breve lezione di filosofia scolastica, che riprende il procedimento della demostratio quia, dove dagli effetti si cerca di giungere alle cause della questione, attraverso quattro questioni: 1) il quia, sapere che la cosa è o non è, cioè sapere se è reale; 2) il quid, sapere ciò che essa è; 3) il quale, sapere qual è la natura di essa; 4) il quare, sapere perché essa è. Solo Dio conosce le risposte a tutte e quattro le domande, i filosofi cercano di arrivare almeno alla terza questione, mentre l’uomo comune è fermo alla prima.

Ecco, quindi, che ci ritroviamo di nuovo con l’insegnamento più grande di tutti: dobbiamo fermarci a conoscere ciò che è, è inutile tentare di capire il resto, perché il resto appartiene solo a Dio. E se così non fosse, la Vergine Maria non avrebbe mai partorito, né Adamo ed Eva avrebbero sentito l’impulso di mangiare la mela. Né, oseremo dire, tutti noi avremmo sentito il bisogno di incarnarci.

Citando Aristotele e Platone, uomini che più sapevano rispetto agli altri uomini, Dante conferma che anche i due si sono fermati alle questioni filosofiche, non dando risposte alle domande di natura scientifica-naturale, meno mai a quelle di natura teologica, confermando così che la teologia è materia superiore rispetto alla filosofia. Questo concetto è estremamente importante in questo canto, perché ci verrà riservato dopo, anche se con una diversa sfumatura.

Tutto ciò, comunque, fa vacillare l’uomo che vuole incamminarsi verso la Grazia perché è normale seguire la logica dei pensieri, voler cercare il perché di qualcosa, quando questo perché c’è ma non ci appartiene. Pur non vedendo a volte la nostra Guida, ancora legata a una natura più razionale semplicemente perché è con questo linguaggio che parla la materia, dobbiamo rimanere fiduciosi che ci sta e che ci parlerà al momento opportuno.

Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.

«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».

E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,

da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.

«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,

quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,

ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».

Come le pecorelle escon dal chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette e quete, e lo ‘mperché non sanno;

sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.

Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.

Una volta arrivati alla costa del monte, i due si accorgono che la salita è talmente ripida che al confronto Lerici e Turbia – due località della Riviera ligure – sembrano facili da salire. Ora, chi è andato da quelle parti ha già le vertigini al solo pensiero.
Mentre Virgilio è intento a capire come poter proseguire, Dante osserva da lontano delle anime che camminano lentamente e fa cenno alla Guida di porgere lo sguardo. Così i due si incamminano, con Virgilio che dice a Dante di tenere ben salda la speranza, proprio per quanto detto al paragrafo precedente.
Dopo mille passi le anime sono ancora lontane – il perché di questa lentezza lo vedremo dopo - ma si impauriscono lo stesso alla vista di Dante che è vivo, ed è per questo che si fermano e si stringono in gruppo.

Virgilio chiede loro di indicare la via più percorribile affinché si possa giungere alla montagna e di farlo in fretta, in quanto al saggio, che ben conosce l’importanza del tempo, non piace perderlo inutilmente.
A questa richiesta le anime, proprio come farebbero delle pecore, ricominciano a camminare, sempre lente.

Dante descrive il loro comportamento come modesto e dignitoso nei movimenti. Se aggiungiamo il paragone con le pecore, capiamo che di queste anime dovremmo ammirare l’umiltà, che poco ha caratterizzato i dannati dell’Inferno.

«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ‘l lume del sole in terra è fesso.

Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».

Così ‘l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vada a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.

Miniatura di Manfredi,
XIII secolo
Come se non bastasse, Virgilio continua a rincuorarle: non devono temere, perché se un vivente è qui, è per volontà divina. Questo deve essere anche un monito per noi: tutto di quanto ci accade è volontà divina, perciò perché temere?

Virgilio, quindi, fa cenno alle anime di precederli per indicare la via. Una, però, rallentando il passo pur continuando a camminare, si avvicina a Dante. Quest’ultimo lo descrive di gentile aspetto, che per i tempi se indicava un uomo era per risaltarne la nobiltà di casta, spirito e tratto.

L’anima si presenta come Manfredi di Svevia, quindi raccontiamo brevemente la sua storia: nato attorno al 1231, era il figlio di Federico II di Svevia e Bianca Lancia di Monferrato. Prende la reggenza dopo la morte del padre e del fratello Corrado IV e lo fa così bene che ha come obiettivo quello di regnare su tutta l’Italia. Quando il 10 agosto 1258 arriva a Palermo, Puglia e Capua, aggiungendo tutto al Regno di Sicilia, il papato si spaventa, e lo combatte inondandolo di scomuniche, fino al momento della sua morte, il 26 febbraio 1266 avvenuta presso la battaglia di Benevento, contro Carlo d’Angiò, chiamato proprio da papa Clemente IV per arrestare Manfredi.

Dante non poteva averlo conosciuto in vita, in quanto l’anno di morte di Manfredi coincide con il suo di nascita, ma la storia era abbastanza famosa all’epoca, quindi possiamo solo immaginare lo stupore del pubblico che si ritrova il Manfredi al Purgatorio. Come mai?

Con questa scelta Dante vuole sì rendere nobile Manfredi di Svevia, che rappresenta tutto il positivo che un condottiero può avere, ma ci fa anche capire che la Chiesa ha certamente valore ma, essendo composta da uomini, non ha l’ultima parola con Dio.
Il tutto è condito da una frecciatina: se i papi e i ministri della chiesa avessero ben letto la Parola di Dio, saprebbero che la Sua bontà è così grande da perdonare tutto e non perderebbero tempo ad andare contro gli uomini, o addirittura i corpi morti di questi, come nel caso di Manfredi che, secondo la leggenda, si è visto riesumare le proprie spoglie dalla stessa Chiesa, solo per essere sepolto oltre i confini del Regno.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza».

Manfredi continua spiegandoci che lui si è pentito in punto di morte per i suoi peccati, ed è per questo che ora si trova all’antipurgatorio. Ma è anche vero che le scomuniche vanno scontate, per esattezza trenta volte quanti sono stati gli anni passati in contumacia, cioè senza chiedere perdono alla chiesa.
Le preghiere dei viventi, però, aiutano di molto le anime a vedersi ridurre la pena. Ecco perché Manfredi racconta tutto a Dante: gli chiede di poterlo riferire almeno a sua figlia Costanza, così che possa continuare a pregare per il padre.

Ora capiamo anche perché le anime procedono con molta lentezza: in vita sono state così orgogliose da non aver chiesto perdono e la loro conversione è arrivata solo alla fine. Pagano, quindi, la loro indolenza con lo stesso atteggiamento nel fisico.

Continueremo a parlare di questo, e di molto altro, il prossimo mese.

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