Racchiude il fascino di esprimere il concreto attraverso l’astratto.
Il linguaggio nasce da una necessità, ma quando quella necessità viene meno, può ancora resistere l'impalcatura delle parole?
Oltre all’indiscutibile utilità quotidiana, il linguaggio racchiude in sé anche componenti che aprono ad altri mondi, elevando l’essere umano in quanto tale.
È il caso della poesia, che attraverso l’utilizzo creativo delle parole, trasforma il linguaggio in una forma d’arte.
Giocare con i significati ha un certo fascino, smontare e rimontare le frasi per generare nuovi concetti retorici è qualcosa che coinvolge lo scrittore in una dimensione differente. Chi scrive cerca di rendere accessibile tale dimensione a chi legge.
Questo preambolo, in realtà, mi serviva solo per introdurvi l’argomento da un punto di vista ordinario. Ossia, il linguaggio è certamente ordinario, e benché la poesia abbia un lato “straordinario” si costruisce su parole che esistono nel linguaggio comune. Questo quasi sempre, quantomeno. Non è raro che un poeta si diletti a inventare neologismi, né che si conceda licenze che sospendono le solite regole grammaticali.
E ora, giungiamo alla parte forse più provocatoria dell’argomentazione.
La poesia, abbiamo detto, esiste perché è presente un sostrato linguistico comune da cui attingere. Proviamo allora a far venire meno quel sostrato condiviso lasciando intatto lo stile del poeta.
Il caro Lewis Carroll ha fatto proprio ciò. L’autore di “Alice nel paese delle meraviglie” era di certo una persona la cui fantasia travalicava i confini del linguaggio. Nel romanzo “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò” è presente una poesia inusuale chiamata “Jabberwock”.
Tradurre questa poesia penso sia stato uno dei compiti più arduo nella storia dei traduttori, dato che molte parole in “Jabberwock” non significano effettivamente nulla, o comunque si tratta di giochi fonetici di scomposizione e ricomposizione di termini inglesi. In linea di massima si stratta di un componimento che sembra narrare l’uccisione di una creatura mitologica, il “Jabberwock” appunto. La poesia sembra scritta in inglese, ma effettivamente può essere un’altra lingua. Di seguito vi lascio una delle traduzioni di tale componimento, quella che secondo me riesce a rendere in italiano quell’effetto di estraneità al proprio linguaggio, lasciando inalterato lo stralcio di senso dell’originale.
S’era a cocce e i ligli tarri
Girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
Figlio attento al Giabervocco:
ha gli artigli ed ha le zanne,
ed attento, attento al Tocco,
e disprezza il frumio Stranne!
Egli prese in man la spada,
da gran tempo lo cercava,
e sull’albero di nada
in pensiero riposava.
Mentre stava sì in pensiero
Ecco il Giabervocco appare
Per il bosco artugio e fiero
Tutte alunche fiamme pare.
Uno e due! Ecco che fa
L’itra spada zacche, zacche.
L’erpa testa ei lascia, e va
Galonfando pel pirracche.
“Hai ucciso il Giabervocco!
Vieni, figlio, che t’abbracci,
vieni, figlio, al bardelocco
dei dì lieti di limacci!”
S’era a cocce e i ligli tarri
Girtrellavan nel pischetto,
tutti losci i cencinarri
suffuggiavan longe stetto.
- Lewis Carroll, “Jabberwock”
(traduzione di Silvio Spaventa Filippi)
Forse adoro più del dovuto l’autoreferenzialità di Lewis Carroll, ma è un dato di fatto che ora tutto ciò è storia della letteratura. Subisco il fascino del concettuale, ma subisco pure lo stupore suscitato dal dolce suono di ciò che il significato lo ha perso.
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