Era 1915. Ero lì, come tutti i miei coetanei. Mi sentivo forte e temerario, sembravo solo contro il mondo. Volevo fare la differenza, volevo dare una mano e sentirmi migliore. Ho avuto sempre timore di essere l’ultimo degli ultimi ma è poi è arrivata lei. Mi affascinava e la temevo e in lei ho visto il mio riscatto.
La guerra mi sembrava l’opportunità che attendevo. In lei ho trovato coraggio.
Ho fatto la fila in caserma, come tutte le nuove matricole. Ero uno dei più giovani, molti avevano motivi diversi per far parte dell’esercito, chi aveva voglia di vedere il mondo, chi il mondo voleva dominarlo e chi invece non aveva nulla. In questi ultimi possiamo mettere Marco.
Marco era uno con cui ho stretto subito, era un tipo molto patriottico. Sì, era. Marco è morto pochi giorni fa.
La mia entrata in guerra non è stata delle migliori, non pensavo che le trincee fossero così stette. Erano delle enormi buche, piene di corpi vivi, il primo ufficiale le descrive come luoghi in cui i cadaveri camminano.
Appena messo il piede nell’accampamento mi sentivo diverso, nuovo. Ricordo che respiravo aria, quell’aria mi sembrava fredda, come tutto era freddo in torno a me.
Mi muovevo tra le barricate, iniziavo a scrutare con lo sguardo i miei compagni di guerra. Vedevo chi puntava il fucile contro l’esterno ad ogni minimo rumore, li vedevo molto vigili, Marco era uno di quelli, che con occhio attento prestava attenzione a tutto ciò che accadeva. Era interessante notare il modo in cui tutti sembravamo uguali con quelle uniformi, e come molti di noi già si erano abituati al gruppo.
La prima notte è passata senza difficoltà, nella trincea non si vedeva nulla, erano in pochi svegli, tutti dormivano con il fucile vicino, pronto e carico per sparare. Quella notte chiusi occhio subito.
Superato il buio arrivava l’alba, il comandante ci svegliava tutti, ci metteva ai nostri posti. Ho avuto l’onore di razionare il cibo. Quest’ultimo non era molto invitante, tutt’altro, però dovevamo mangiarlo, l’alternativa erano i topi che spesso correvano tre le trincee, ucciderli e mangiarli al momento non era una cosa invitante.
Proprio i topi ci davano problemi, scherzosamente un soldato ha detto che danno più fastidio degli Asburgo.
Dopo il primo giorno passato in tranquillità ne arrivò uno funesto.
Dal Carso si mossero un gruppo di Austrici pronti a combatterci, spararono. Subito i mitragliatori del mio reggimento inondarono di colpi il nemico, era una carneficina.
Uno sparo mi sfiorò, mi passò vicino all’orecchio e il suo rumore lo ricordo ancora oggi. Il sangue si era gelato nelle mie vene, il cuore batteva forte, percepivo quei battiti e i miei occhi erano fissi nel vuoto.
Le urla dei miei commilitoni mi incitavano a sparare, ma rimanevo fermo, fin quando l’ufficiale non mi toccò la spalla. Io mi ripresi e sparai, quasi alla cieca, colpendo qualche nemico.
I corpi degli austriaci cadevano uno ad uno sul campo. Quella davanti a me era solo un piccolo frammento, non avevo ancora visto cosa potevano fare gli uomini, ma questa è un’altra storia.
Conclusa la battaglia, i medici traportarono subito i corpi via, i feriti, sotto le cure dei medici, si ripresero piano piano.
A me era stato conferito l’ordine di raccogliere le piastrine dei morti e portarli al comandate. I cadaveri lungo la trincea rendevano questa più stretta e angusta. Raccolsi venti piastrine, tra cui quella di Marco. Le portai al comandante e iniziarono a identificare i caduti. Quella è stata la prima volta che ho visto la morte, la prima volta che ho capito cosa significasse essere un soldato.
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