Oggi va di moda la lotta al “body shaming”. Una guerra contro quelli che, in un modo o nell’altro, nel corso della propria vita hanno fatto sentire sbagliato chiunque non rientrasse in un normativo canone estetico. Il mio dissidio con la bilancia non è cosa nuova, la sto mettendo a nudo giorno dopo giorno in una lenta odissea alla ricerca di casa mia. Alla ricerca del mio corpo.
Convivere con un disturbo alimentare non è di certo una grande cosa. Guardare ciò che ci si mette nel piatto e sentirsi in un qualche modo scorretti semplicemente perché ci si sta nutrendo, ti fa entrare in un baratro di percorsi sempre tentennanti e incerti. Mangi, forse troppo, forse il giusto, ma mangi. Ti senti sporco come se avessi ingerito la cosa peggiore del mondo, nell’orario peggiore del mondo e allora inizi a farlo negli orari sbagliati: quando nessuno può vederti. Per tanto tempo, infatti, nonostante fosse “l’orario di pranzo” cercavo di evitare lo sguardo altrui perché era come se potessi leggere nella loro testa. I loro occhi mi dicevano che avrei dovuto saltare qualche boccone almeno, male non mi avrebbe fatto. Perché se sei ciccione perdi il diritto al nutrimento, senza neanche renderti conto che facendo così cadi sempre più in basso. Sempre più profondo.