Quando ero bambina pensavo che la mattina appartenesse solo ai veri fortunati. Quando ero adolescente pensavo che la mattina volesse dire libertà.
Il tempo si prese prima nonno Erminio, poi nonna Costanza, infine nonno Tonio. Nonna Giovanna rimase la sola di quell’unito gruppo di amici e parenti acquisiti, così per non farla sentire sola, venne a vivere con noi che eravamo solo tre in una casa grande abbastanza per cinque. Non so quello che facesse durante le mattine, ma mentre ero completamente disinteressata alle lezioni di latino, matematica e quant’altro, sentivo stringermi il cuore in petto al pensiero che lei stesse a casa da sola, a guardare la televisione, senza compagnia alcuna.
Si era spostata di quartiere, con noi era sempre sorridente, ma sentivo che c’era qualcosa che non andava, cinquant’anni di abitudini e di amore non potevano essere cancellati in qualche mese da noi.
Portavo dentro così tanta malinconia per la mancanza dei miei nonni che la riversavo sull’unica che era rimasta in vita e quando un giorno di novembre cominciò a grandinare, scoppiai in un pianto così intenso che i professori chiamarono i miei genitori e insieme decisero che potevo tornarmene a casa, anche senza nessuno ad accompagnarmi.
Quando aprii la porta ero completamente zuppa che le mie lacrime non potevano più essere riconoscibili. Nonna Giovanna corse verso di me, chiedendomi cosa mi fosse successo, poi prese degli asciugamani e mi preparò un tè caldo. Le raccontai tutto e vidi tutta la sua forza nel non piangere assieme a me. Mi strinse la mano e mi disse: “Se non piove domani resta a casa, ti farò vedere una cosa”. Così acconsentii e passai un caldo pomeriggio con lei, sedute sul divano, con un piumino addosso, lei a cucire qualcosa, io semplicemente a osservarla.
Il giorno dopo il cielo si mantenne sul grigio, ma nulla dava l’impressione della pioggia. Così rimasi a casa, sotto le cure di nonna Giovanna che, usciti i miei, mi disse di andarmi a preparare, vestirmi carina ma comoda. Prendemmo l’autobus per poche fermate, fino ad arrivare al suo vecchio quartiere. Camminammo qualche metro e raggiungemmo un edificio rosso, dall’aspetto di una villetta con un solo piano. Entrammo e mi vennero a salutare quelli che riconobbi come gli amici dei miei nonni, con lo stupore negli occhi nel vedermi ormai signorina. Mi offrirono pezzi di torta, succhi di frutta e improvvisamente iniziò una musica, che mi trasportò negli anni Cinquanta, quando i miei nonni erano giovani e innamorati.
Ballammo fino all’ora di pranzo, quando era tempo di ritornare. Sulla via del ritorno nonna Giovanna ammise il suo enorme dolore per la perdita del marito e dei suoi migliori amici e di come ha superato tutti i lutti con la vita.
«Sai, si arriva a un punto in cui ti accorgi che non rimane molto ancora da vivere. Allora puoi decidere di comportarti in due modi: o smetti di vivere e attendi la morte, o ti godi quel che ti resta. Sarebbe facile, per me, affrontare i giorni che mi rimangono nel primo modo. È difficile prepararsi tutti i giorni, scendere, attendere un autobus, andare lì… ma ogni volta, al ritorno, capisco che è stata la scelta più giusta».
«E quando piove che fai? Insomma, ieri stavi a casa…»
«Amo i tuoi genitori, ma da loro non posso fare niente: non posso sistemare che tanto c’è la signora delle pulizie, non posso fare la spesa che tanto ci pensano loro che prendono tutto sano, non posso neanche cucinare per te perché devi imparare a gestirti da sola. Così quando non posso andare, per non cadere nella malinconia, mi metto a ricamare. Tutto questo, cara, è un segreto tra me e te».
Abbracciai così forte nonna Giovanna che ancora adesso posso sentire i suoi abiti sui miei.
Negli anni successivi si fece sempre più magra che imparai a darle quella stessa forza in altri modi, per non farle male.
Quel giorno fu un’importante lezione per me: la scelta di mia nonna mi fece capire che non è sempre facile uscire, divertirsi e svagarsi ma che è necessario per continuare a vivere e non essere risucchiati nel vortice di una società che ci vuole sempre più robot e meno umani.
I giorni seguenti a scuola furono più facili, pensandola serena. Ogni mattina la lasciavo con un bacio sulla guancia e una frase sospesa: “Fallo per loro”.
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