giovedì 12 agosto 2021

#MustToRead: La fine del mondo e il paese delle meraviglie

È la seconda volta che facciamo la recensione di un romanzo di Murakami, se vi siete persi la prima potete recuperarla nell’articolo L’uccello che girava le viti del mondo. Così come vi abbiamo detto in precedenza, non è stato facile neanche questa volta leggere il romanzo. Non perché sia complicato o di difficile lettura, ma perché ha così tanta introspezione e verità occulte che capitolo dopo capitolo abbiamo avuto bisogno di riflettere parecchio.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1985, vincendo il Premio Tanizaki (uno tra i più grandi riconoscimenti letterali del Giappone) dello stesso anno. Quasi sicuramente un romanzo distopico, ma non ci piace definirlo così. Se avete letto gli articoli precedenti o ci avete ascoltato su ApolloStation, a RadioSapienza, sapete quanto sia importante per noi l’inconscio e la “creazione” della nostra realtà.

Murakami anche questa volta parla di ciò, il tutto velato sotto la fantasia del suo romanzo. 

“Sono persuaso che il mondo contenga moltissime possibilità. Anzi, possibilità illimitate. E la scelta fra l’una o l’altra in una certa misura spetta alle singole persone.”

Il romanzo, come si intuisce dal titolo, segue due storie parallele. Nella prima: “La fine del mondo”, il protagonista è un uomo che si è ritrovato dentro una città racchiusa da mura altissime dalle quali è vietato uscire. Ha ricordi vaghi della vita passata al di fuori di lì, e chiunque incontri gli spiega che è normale, e che piano piano svaniranno del tutto. Gli abitanti sembrano anche non avere scopi, desideri, pulsioni. Nulla che possa essere un’identificazione con quello che erano o sono. Non a caso prima di entrare nella città bisogna abbandonare del tutto la propria Ombra.

Il ragazzo diventa il Lettore dei sogni e svolge il lavoro nella biblioteca pubblica. Deve leggere i sogni dai teschi che gli vengono dati e si interroga sul perché proprio a lui sia spettato tutto ciò.

Nella seconda storia: "Il paese delle meraviglie", il protagonista è un cibernetico, un uomo il cui compito è quello di criptare le informazioni custodite nel proprio cervello. È anche una sorta di agente segreto, tanto che neanche lui è a conoscenza di ciò che ha appreso. Per criptare le informazioni, infatti, deve ricorrere a una tecnica chiamata shuffling, dove la password che lo fa cadere in uno stato di trans è proprio “La fine del mondo”. Il tutto è condito da una guerra occulta tra persone come lui, supportati dalla scienza e gli Invisibili, creature che vivono al di sotto della superficie.

Come se tutto ciò non bastasse, la vita per Tokyo scorre tranquilla, nessuno è a conoscenza di questa guerra, dei dati, né del lavoro che ha l’uomo.

“Di solito sono una persona sincera, quando una cosa l’ho capita lo dico, e anche quando non l’ho capita. Non do risposte ambigue, l’ambiguità crea solo guai. E se la maggior parte delle persone al mondo si esprime in maniera ambigua, è perché in fondo al cuore è in cerca di guai, ne sono fermamente convinto. Non riesco a pensare diversamente.”

L’ossimoro di tutto ciò sta nel fatto che seppur il protagonista pensa di essere una persona del tutto schietta, in realtà parla e si comporta nella maniera più dubbia possibile. Infatti il libro è scritto dal suo punto di vista, in prima persona. Eppure non abbiamo idea né di come si chiami lui, né del nome degli altri protagonisti. Come se l’identità non avesse alcun valore.

Per assurdo, però, sappiamo tutto dei personaggi. Sappiamo il loro lavoro, ciò che amano, ciò che desiderano, abbiamo la descrizione fisica, la chimica che si crea tra di loro, eppure nessun nome o cognome. Bizzarro, non trovate? 

“Le cose di cui ho conservato memoria sono due: la mia città non era circondata da mura, e tutti quanti camminando ci portavamo dietro la nostra ombra.”

Qui fate attenzione, perché arrivano alcuni -pochi, solo quelli necessari- spoiler. Quindi se non volete saperli e la recensione vi ha già incuriositi, potete tranquillamente abbandonare la pagina, acquistare il libro e tornare a leggere una volta finito con la lettura. Se invece non vi interessano, proseguite senza problemi.

Già a inizio libro possono esserci dubbi sul fatto che le due storie non siano diverse, ma bensì viaggino in parallelo. La conferma ci arriva alla seconda metà del libro. Lì non abbiamo più dubbi: gli uomini di entrambe le “realtà” sono la stessa persona. È come se il personaggio viaggiasse tra universi paralleli, salvo scoprire che in realtà è tutto dentro se stesso.

Molto probabilmente anche gli altri protagonisti sono gli stessi, con diverse mansioni. Forse il colonello è lo scienziato, o forse no. Sono presenti anche creature mitologiche come gli unicorni e altre entità che vivono nei boschi della cittadina circondata da mura. 

Mi identificavo con tutte le cose che si trovavano nella città. La muraglia, il cancello, le bestie, i boschi, il fiume, la cavità del vento, il lago, tutto era me. Tutto esisteva all’interno di me. Perfino quel lungo inverno.

Quando capiamo che i due mondi appartengono alla stessa persona realizziamo anche la differenza tra le due realtà: una è interna (Il paese delle meraviglie), l’altra esterna (La fine del mondo) ed è quasi scioccante notare come le due viaggino in parallelo, seppure così diverse. Nella seconda esistono gli unicorni, e mentre il protagonista lo scopre, quello della prima realtà comincia a interessarsi agli unicorni, prendendo tutti i libri possibili dalla biblioteca vicino casa.

Che seguiate la New Age o la teoria degli universi paralleli, non importa. In entrambe le strade ci viene spiegato che esistono infinite possibilità, infinite realtà nelle quali esistiamo e ognuna è reale tanto e quanto quella che stiamo vivendo ora.

Siamo i creatori della nostra realtà” assume così un significato diverso, che è semplicemente quello del: “viviamo nella realtà che più ci soddisfa, anche se così non sembra”. Non è infatti la nostra parte conscia a decidere dove andare, ma l’inconscio, quella parte che non comprendiamo e che spesso non vediamo di noi. 

“Lo so che mi sto comportando male nei tuoi confronti. Davvero. E separarmi da te mi addolora molto. Però devo prendermi la responsabilità di quello che ho fatto. Questo mondo è mio. È intorno a me che si erge la muraglia, è dentro di me che il fiume scorre, sono io che brucio producendo quel fumo.”

Durante la lettura crediamo che l’Ombra sia l’inconscio, ma in realtà l’Ombra rappresenta tutto ciò che è esterno a noi. È la nostra identità, sono le nostre emozioni, è ciò che ci fa distinguere il bene dal male, è il concetto stesso di dualità che vive in questa realtà.

Per spiegarvelo riprendiamo l’esempio già posto nell’articolo Peter Pan: in questa Terra abbiamo l’alba e il tramonto (dualità) ma se uscissimo dall’atmosfera terrestre, vedremmo che il sole non sorge e non cala, sta fermo (unità). Allo stesso modo è la nostra Ombra, attraverso le sue credenze inconsce, a decidere come una certa situazione è. 

Per esempio: perdere qualcosa è la situazione neutra, ma se abbiamo la credenza che perdere significa fallire, non essere all’altezza, ecco che diventa un qualcosa di negativo. Se invece dentro di noi c’è la credenza che perdere vuol dire fare spazio al nuovo, lasciare andare per far entrare abbondanza, ecco che vediamo nella perdita il sollievo, e diventa un'esperienza positiva.

Nel romanzo, quindi, l’Ombra che diventa via via più debole, fino a morire, fa scoprire al protagonista una nuova realtà e lo eleva allo stato di coscienza dove è ben consapevole che tutto è una sua creazione e proprio perché è stato lui a decidere il tutto, deve prendersi la responsabilità del demiurgo senza possibilità di tornare in un mondo che divide invece di unire.

“In fondo alla coscienza di ognuno di noi c’è un nucleo che non possiamo percepire. Nel mio caso si tratta di una città. Una città dove scorre un fiume, circondata da un alto muro di mattoni. Gli abitanti non possono uscire, soltanto agli unicorni è concesso. Gli unicorni assorbono l’identità e l’ego degli abitanti come fossero carte assorbenti, e li portano fuori. Per questo nella città nessuno ha un ego o un’identità. Per farla breve, io vivo lì. Anche se quel posto non l’ho mai visto con i miei occhi, quindi non so dirti altro.”

Fa paura pensare che ciò che vediamo all’esterno viva dentro di noi? Ci fa storcere la bocca? Non vogliamo crederci perché pensiamo che un esserino inutile come noi non debba avere determinate responsabilità? Fortunatamente Murakami ha messo il tutto come una sorta di fantasia, della serie: “Tutto molto bene, ma dai, è solo immaginazione”. Tirate quindi un sospiro di sollievo, non avete questo potere.

O forse sì?

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