venerdì 29 novembre 2024

#DivinaCommedia: Canto IX - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il nono canto del Purgatorio. Ora finalmente possiamo accedere al Purgatorio ma se pensiamo che sia arrivato anche il momento di rilassarsi e lasciarsi andare, stiamo sbagliando di grosso. Adesso più che mai dobbiamo rimanere attenti e vigili.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.

La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;

di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;

e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ‘l terzo già chinava in giuso l’ale;

quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ‘ve già tutti e cinque sedevamo.

Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,

e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,

in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Gaminede,
quando fu ratto al sommo consistoro.

Fra me pensava: ‘Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’.

Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.

Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ‘ncendio imaginato cosse,
che convenne che ‘l sonno si rompesse.

Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,

quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;

che mi scoss’io, sì come da la faccia
mi fuggì ‘l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Dante è ormai vinto dalla stanchezza così alle nove di sera, orario di Purgatorio, – dall’altra parte del mondo, quindi in Italia, invece è l’alba – si arrende al sonno. Quando poi sopraggiunge quasi l’alba lui fa un sogno a cui presta particolare attenzione: era credenza dell’epoca, infatti, che i sogni arrivati alle prime luci del mattino fossero profetici.

In questo sogno Dante vede un’aquila volare alta nel cielo e piano piano scendere in picchiata, come se volesse afferrare la preda, in questo caso Dante stesso. Il poeta, infatti, si sente afferrare dagli artigli del rapace, e mentre l’uccello torna velocemente ad alta quota, per Dante è come se il suo corpo bruciasse e il dolore, lo spavento e l’angoscia sono così grandi che si sveglia di soprassalto, mantenendo tutti questi sentimenti.

Proseguendo con la lettura ci verrà spiegato dal poeta stesso il perché di questo sogno…

Dallato m’era solo il mio conforto,
e ‘l sole er’alto già più che due ore,
e ‘l viso m’era a la marina torto.

«Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.

Tu se’ omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che ‘l chiude dintorno;
vedi l’entrata là ‘ve par digiunto.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno

venne una donna, e disse: ‘I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via’.

Sordel rimae e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ‘l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.

Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ‘l sonno ad una se n’andaro».

A guisa d’uom che ‘n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,

mi cambia’ io; e come sanza cura
vide me ‘l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.

Dante è ora anche confuso: nota che è giorno già da due ore, ma che soprattutto non si trova più nel posto dove si era addormentato, bensì su un’altura, dalla quale fissa il mare.

Virgilio, vedendolo in quello stato che potremmo definire sconnesso, proprio come ci capita quando ci risvegliamo di soprassalto e fatichiamo a lasciare andare le sensazioni provate durante i sogni, lo rassicura e gli spiega che mentre dormiva, è arrivata Santa Lucia che lo ha preso tra le sue braccia, portandolo dove si trova adesso. Le altre anime sono rimaste al loro posto, mentre Virgilio ha seguito la donna. Appena arrivati lei gli ha fatto cenno verso la roccia, per poi andarsene poco prima che Dante si risvegliasse.
A sentire quelle parole, il Poeta si calma e tutto il timore provato prima si trasforma in fiducia.

L’aquila era così Santa Lucia, e qui c’è un bel po’ da dire sul simbolismo.

La Santa, lo sappiamo, è la protettrice della vista e fu proprio a lei che Dante si affidò per un problema grave agli occhi, guarendo. Nel Convivio racconta di questa vicenda, di come spesso i suoi occhi diventassero totalmente rossi, e li facessero così male da alterare anche la vista, che di conseguenza gli faceva vedere tutto rubicondo. Per guarire fu costretto al riposo assoluto, nel quale spesso pregava la Santa. Così come in vita, Lucia lo aiuta a superare gli impedimenti e gli ostacoli, portandolo direttamente sul luogo a cui è destinato senza che lui muova un passo.
Notiamo anche come spesso nei sogni, quindi nella nostra immaginazione, è facile incappare nell
’ansia e nell’angoscia. Il nostro Ego è come una creatura perennemente impaurita, che ingigantisce ogni problema o lo crea, come in questo caso.

L’aquila, poi, è anche simbolo dell’Impero e della Grazia Divina, a sottolineare di come anche queste due istituzioni sono al servizio delle persone: da una parte l’Imperatore che dovrebbe aiutare i suoi sudditi a condurre una vita dignitosa; dall’altra Dio che vuole per tutti gli esseri umani pace, amore e fratellanza.
La figura che più si avvicina a tutto ciò è, quindi, una donna: simbolo di cura materna ed elevazione spirituale.

Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.

Noi ci appressammo, ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,

vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gite ad essa, di color diversi,
e un portier ch’ancor non facea motto.

E come l’occhio più e più v’apersi,
vidil seder sovra ‘l grado sovrano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;

e una spada nuda avëa in mano,
che reflettëa i raggi sì ver’ noi,
ch’io dirizzava spesso il viso in vano.

«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov’è la scorta?
Guardate che ‘l venir sù non vi nòi».

«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose ‘l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: ‘Andate là: quivi è la porta’».

«Ed ella i passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».

Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.

Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.

Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.

Sovra questo tenëa ambo le piante
l’angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.

Dante inizia col dirci di prestare attenzione a come cambia il suo modo di esprimersi. Ora il linguaggio è più aulico, perché lui stesso si ritrova di fronte a un angelo. Se prima, all’Inferno, spesso venivano usate parole rozze, derisorie, basse, adesso persino i suoni delle parole sembrano più nobili.

Così Dante si avvicina alla figura, ma più lo fa più non riesce a guardarlo in viso, tanto è lo splendore del suo volto. In più la spada che aveva in mano, sguainata, riflette la luce proveniente dai raggi.

L’angelo, a differenza dei demoni, non si informa su chi siano, ma su dove vogliono andare e dove sia finita Lucia. Viriglio risponde che è andata via appena hanno messo piede lì, e ha fatto loro cenno di proseguire proprio verso la direzione dell’angelo. Così i due si avvicinano ancora di più e notano tre scalini di diverso colore: il primo è di marmo bianco, così chiaro che riflette il corpo di Dante il quale ci si può specchiare; il secondo è porpora scuro, quasi nero, con una spaccatura nel mezzo e il terzo rosso come il sangue che esce da una vena. Sopra al terzo scalino vi era l’angelo, che sedeva alla soglia della porta, all’apparenza dura come un diamante.


Spieghiamo per bene.

I tre gradini sono un’allegoria per indicare la Confessione, ognuno di loro è proprio una delle sue fasi: il gradino bianco rappresenta la contritio cordis (contrizione del cuore) dove riconosciamo i nostri peccati vedendoli dentro di noi, è il motivo per cui Dante si specchia; il secondo la confessio oris (confessione orale), dove con umiltà spacchiamo quella parte di noi, la togliamo alla nostra anima per consegnarla a Dio, ecco il perché della spaccatura del gradino; il terzo è la satisfactio operis (soddisfazione per mezzo delle opere) a rappresentare come la carità debba essere svolta con gioia e vitalità, proprio come il sangue scorre nelle nostre vene.

Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mioi, dicendo: «Chiedi
umilemente che ‘l serrame scioglia».

Divoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiedi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.

Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe» disse.

Cenere, o terra che secca si cavi,
d’un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.

L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.

«Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss’elli a noi, «non s’apre questa calla.

Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ella è quella che ‘l nodo digroppa.

Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».

Virgilio dice poi a Dante di chiedere, con estrema umiltà, di poter accedere attraverso la porta. Così il Poeta si getta ai piedi dell’angelo e si batte la mano al petto per tre volte, supplicandolo per poter passare.

L’angelo incide sulla fronte dell’uomo sette P, dicendogli: «Quando sarai dentro, fa’ in modo di lavarti queste ferite». Dopodiché estrae dalla sua tunica due chiavi: una d’argento e l’altra d’oro, ma non ci lascia senza spiegazione. Dice, infatti, che se anche una delle due chiavi non gira, non vi è modo per entrare. Quella d’oro è la chiave più preziosa perché proviene direttamente dall’autorità di Dio che assolve i peccati, mentre quella d’argento proviene da anni di esperienza e intelligenza da parte del sacerdote che in confessione deve capire e comprendere sul serio se un peccato può essere perdonato. È San Pietro ad avergliele date, aggiungendo che è preferibile che in Terra un sacerdote si sbagli nell’aprire la porta a un peccatore, piuttosto che tenerla chiusa a un’anima che veramente vuole redimersi. L’importante è che chi vuole entrare, si inginocchi davanti ai suoi piedi.

Le sette P sono i sette vizi capitali, di cui Dante – così come tutti noi – è penitente. Sarà il suo cammino nel Purgatorio che toglierà ognuna di queste ferite. Attenzione proprio alla parola ferita: i peccati non vengono visti con giudizi dall’angelo, ben consapevole che chi li commette è solo un’anima che non ha idea di come curarsi.
Le due chiavi rappresentano l’estrema misericordia di Dio: per Lui è preferibile che la porta si apra a chi ancora non è convinto della purificazione, piuttosto che rimanere troppo retti nel giudizio con chi pecca molto ma vuole redimersi.
Questo dovrebbe darci la stessa fiducia di inizio Canto provata da Dante: quante volte ci sentiamo indegni di qualcosa nei confronti di Dio solo perché ammettiamo di essere peccatori? Ebbene, ai Suoi occhi è proprio in quel momento che meritiamo l’apertura alla purificazione. L’importante, come sempre, è mantenersi umili. Ricordiamoci delle anime all’inferno che anzi erano superbi e orgogliosi delle azioni che avevano compiuto, anche se questo dava loro terribili pene.

Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ‘n dietro si guata».

E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,

Non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.

Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ‘
Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.

Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;

ch’or sì or no s’intendon le parole.

Così la porta si apre ai due viaggiatori, ma è così dura che lo fa lentamente e con un rumore tremendo. L’angelo fa loro: «Entrate pure, ma vi avverto: chi si guarda indietro, deve tornare fuori». A queste parole Dante sente il canto delle anime lì presenti che intonano il “Te Deum laudamus”, ma le parole non sempre arrivano alle sue orecchie, proprio quando si entra in un’immensa cattedrale e l’acustica copre le voci dei cori, se presente un organo.


L’ammonimento dell’angelo ricorda la scritta dell’Inferno:Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Insomma: proseguire vuol dire non guardarsi mai indietro. Ma perché?

Se prima guardavamo ai nostri peccati da un punto di vista materiale: ho fatto questo, per arrivare a quest’altro; ho commesso questo perché rispondere a quest’altro e così via… adesso dovremmo cominciare a vederli da un altro punto di vista. Non si tratta più di trovare una giustificazione per sentirci migliori o meno colpevoli, dobbiamo semplicemente lavare via ogni nostra ferita. Se continuiamo a guardare ai peccati come prima, se sentiamo il bisogno di elevare il nostro Ego alla nostra anima, ecco che dobbiamo tornare indietro e ricominciare tutto d’accapo.

Il “Te Deum laudamus” è un inno sacro di lode e ringraziamento a Dio, utilizzato nelle celebrazioni più importanti, o alla Cappella Sistina quando viene eletto il nuovo Papa. Sappiamo che una delle preghiere più importanti agli occhi di Dio è proprio il “Grazie”. Grazie per il cibo sulla tavola, per la giornata appena trascorsa, per la possibilità di un nuovo inizio alla mattina… insomma, le anime qui sentono il bisogno di ringraziare davvero Dio perché è da questo momento che inizia il loro cammino verso il Paradiso.

Ovviamente non sarà facile, ma neanche così difficile…

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