venerdì 26 luglio 2024

#DivinaCommedia: Canto V - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il quinto canto del Purgatorio. Dopo aver attraversato tutto l’Inferno, siamo finalmente giunti al momento della purificazione, anche se c’è ancora del cammino da fare.

Stiamo nell’Antipurgatorio, più precisamente nella terza schiera dove i penitenti devono attendere un determinato periodo prima di poter salire alle vere cornici del monte, per purgare con pene fisiche i propri peccati. Incontriamo tre anime, quelle di: Jacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e Pia de’ Tolomei, tutti e tre morti per morte violenta.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.  
 
Io era già da quell’ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando ‘l dito,

una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».

Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto.

«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ‘l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;

ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla».

Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno.

Come già detto nei canti precedenti, stare in Purgatorio vuol dire muoversi e non rimanere mai fermi, come successo nell’Inferno. Vale anche per il nostro cammino interiore: una volta intrapreso è impossibile fermarsi, anche se ne sentiamo costantemente il bisogno.
Così Dante, discepolo meticoloso, comincia a camminare, ma quando le altre anime notano l’ombra che proietta il suo corpo da vivente e per questo si meravigliano, cede, voltandosi per guardare gli spiriti stupiti. Fortunatamente Virgilio se ne accorge, e lo ammonisce domandandogli il perché si stia fermando, che gli importa di quanto dicono le persone? “Vien dietro a me, e lascia dir le genti” è tra i versi più popolari, e continuando Virgilio gli dice di essere proprio come una torre che rimane immobile, nonostante quanto le accade attorno perché nella mente dell’uomo i pensieri nascono l’uno dopo l’altro e se decidiamo di seguirli tutti non raggiungeremmo mai la nostra meta. E a quel punto, umilmente, Dante risponde al suo Maestro: “Arrivo”, pentito di quanto fatto.

Il compito di Dante è essere nostro Maestro così come Virgilio lo è stato per lui, e qui ci sta mostrando il potere immenso dell’introspezione, della meditazione: rimanere fissi sulla propria meta, avanzare senza farci distrarre dai pensieri che arrivano o dalle voci della gente.
A tutti noi è capitato di prendere una decisione e poi questa viene messa in dubbio prima dagli altri, poi da noi stessi. La differenza tra chi riesce e chi no, sta proprio da quanto ha dato retta a tutti i ma, i dubbi, il chiedersi come. “Vien dietro a me, e lascia dir le genti” dovrebbe essere un mantra da ripeterci ogni volta che ci sentiamo vacillare.

E ‘ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando ‘
Miserere’ a verso a verso.

Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;

e due di loro, in forma di msssaggi,
corsero incontr’a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».

E ‘l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che ‘l corpo di costui è vera carne.

Se per veder la sua ombra restaro,
com’io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ad esser può lor caro».

Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,

che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.

«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse ‘l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».

Immagine presa dal web
Le anime nell’Antipurgatorio intonano il “Miserere” alternandosi i versi, proprio come accade nelle liturgie e Dante, passando accanto a loro, distoglie la loro attenzione del canto che muta in un unico suono di incredulità: “Oh!”.

Già qui vediamo che nessuna di loro riesce a rimanere fissa sulla propria meta: l’attesa della purificazione, perché tutti vengono distratti dal passaggio di Dante. Certo, non possiamo biasimarli: sono morti e vedono un vivo da quelle parti, ci sta, diremmo noi oggi.
Così come fulmini repentini, due di loro – mandati dalle altre anime – si accalcano verso Dante versione very vip chiedendogli spiegazioni, ma risponde Virgilio stile bodyguard dicendo: “Sì, raga, lui è davvero vivo, quindi tranquilli. Non gli state addosso, però, che se lo trattate per bene potreste pure ricavarci qualcosina”.
Veloci come sono arrivati, i messaggeri riportano tutto alla loro gang di anime in attesa che quindi si avvicinano. Immaginiamo Virgilio sussurrare a Dante: “Ao, ascoltale pure, però intanto cammina. Ricordati: chi si ferma è perduto, quindi qualsiasi cosa accada, ti prego nun te fermà”.

Se dovessimo riportare tutto ciò al nostro personale cammino spirituale, ci verrebbe da pensare a tutte quelle volte che amici, parenti, conoscenti hanno cominciato a farci mille e più domande su come fare per raggiungere la Pace interiore, sul perché non rispondiamo in modo diretto, sul perché è così complicato, e via dicendo.
Facciamo attenzione a Dante che se all’Inferno cedeva nel dialogo, nei botta e risposta, qui rimane sempre un attento ascoltatore, senza proferire parola. Purtroppo/per fortuna di tutti è proprio così che funziona: nessuno di noi può dare risposte alle domande interiori degli altri, possiamo solo ascoltarle e al massimo mostrare attraverso le nostre personali esperienze. Nel momento in cui cerchiamo di rispondere con la logica, infatti, non solo stiamo continuando a utilizzare un linguaggio che va bene solo all’Inferno, ma ci stiamo fermando.

«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
veniam gridando, «un poco il passo queta.

Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?

Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,

sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora».

E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,

voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».

Le anime cominciano a dire a Dante: “Amò, ma perché nun te fermi? Ti prego, ascoltaci, guardaci, vedi se conosci qualcuno di noi. Siamo tutti morti violentemente, abbiamo peccato fino all’ultimo e proprio all’ultimo siamo stati illuminati dalla Grazia quindi ora pentiti e perdonati rimaniamo qui, in attesa di poter vedere Dio”.

Dante li guarda, continuando sempre a camminare e risponde: “No, raga, scusate, non conosco nessuno di voi. Però daje, raccontatemi quello che volete così che quando tornerò nel mondo in Pace con me stesso, io potrò parlare di voi e farvi dare quante più preghiere possibili”.

Ricordiamo, infatti, che più i viventi pregano per le anime del Purgatorio, più queste vedono diminuirsi gli anni di attesa. Potremmo anche dire: “Più preghiamo che le persone a noi vicine ritrovino la Grazia nei momenti di confusione e/o attesa, più queste si avvicineranno a essa”.

E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ‘l voler nonpossa non ricida.

Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,

che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.

Quindi fu’ io; ma li profondi fòri
ond’uscì ‘l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi furono in grembo a li Antenori,

là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.

Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.

Corsi al palude, e le cannucce e ‘l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco».


La prima anima comincia a parlare e senza che si sia presentato direttamente, solo dalla vicenda che narra, sappiamo essere Jacopo del Cassero.
Nasce attorno al 1260, da una nobile famiglia di Fano, diventa un importante uomo politico e d’armi.
Guelfo, nel 1296 diviene capo delle milizie di Bologna e, andando contro ad Azzo VIII marchese d’Este – già incontrato tra i tiranni del XII canto dell’Inferno – se lo crea nemico. Così, quando nel 1298 Jacopo del Cassero è costretto a recarsi a Milano, cerca di farlo senza passare sui territori del marchese. Giunge a Venezia, per poter poi proseguire passando per Padova, ma proprio mentre stava a Oriago, sulle rive del Brenta, Azzo lo trova e lo uccide con un colpo di roncone all’inguine.

Dalle parole di Jacopo sentiamo un senso di tradimento, forse nei confronti delle città che avrebbero dovuto proteggerlo, forse da se stesso che pur rimanendo il più prudente possibile, non ha evitato il suo tragico destino.

Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».

E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïo sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepoltura?».

«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.

Io dirò vero, e tu ‘l ridì tra ‘ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: ‘O tu del ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!’.

Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.

Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e ‘l vento
per la virtù che sua natura diede.

Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento,

sì che ‘l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;

e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce si ruinò,
che nulla la ritenne.

Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse;
volòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».


La seconda anima, invece, si presenta subito: è Buonconte da Montefeltro, che trovandosi ancora all’Antipurgatorio è più sicuro che ogni suo famigliare non si curi di pregare per lui.
Dante è curioso, però, di sapere che fine abbia fatto il suo corpo perché la morte del giovane Montefeltro era più che famosa all’epoca, ma dato che non fu mai ritrovato, diede adito a diverse storie e leggende. Intanto vediamo brevemente la sua vita.

Buonconte è il figlio di Guido da Montefeltro, che abbiamo già trovato nel canto XXVII dell’inferno. Nasce tra il 1250 e il 1255 e, così come il padre, era un Ghibellino.
Nel 1287 partecipa agli scontri politici in Arezzo e aiuta la sua fazione a cacciare i Guelfi dalla città, dando inizio alla guerra contro Firenze. Nel 1288 gli Aretini, affiancati proprio da lui, sconfiggono i Senesi alla Pieve del Toppo, battaglia raccontata al canto XIII dell’Inferno, così l’anno seguente è al comando dell’esercito di Arezzo contro i guelfi fiorentini (tra cui parteciparono anche Dante e Jacopo del Cassero) che sconfiggono l’11 giugno 1289. È proprio durante questa battaglia che Buonconte da Montefeltro muore.     

Qui la sua anima racconta che nel momento della sua morte ci fu una vera e propria lotta tra l’angelo e il demone per chi dovesse accoglierlo nell’aldilà, proprio come successo per il padre che si vide contendere tra il diavolo e San Francesco d’Assisi. Questa volta, però, a soccombere è il demonio – che se ancora ancora può sperare di cavarsela con gli umani, poco può fare con gli angeli – così, preso dall’ira, si scaglia contro la Terra, provocando piogge torrenziali che hanno trascinato il cadavere nell’Arno per non essere più trovato.
 
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,

«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria

disposando m’avea con la sua gemma».


La terza anima ha solo due terzine, eppure sono quelle che hanno reso celebre questo canto. Quando prende parola il suo tono è più sommesso, dolce, materno, lontano dalle descrizioni macabre e tumultuose dei due uomini.
A parlare, infatti, è Pia de’ Tolomei che, anche se ancorata al suo corpo proprio come i due – infatti utilizza i termini fatta e disfatta per dire nata e morta – nutre un più profondo rispetto per Dante. È l’unica che racconta brevemente la sua storia e che dice al Poeta di poter parlare di lei, ma solo dopo essersi riposato dopo il lungo viaggio nell’oltretomba.

Di Pia de’ Tolomei non si sa praticamente nulla, se non – grazie a queste terzine – che nacque a Siena e morì in Maremma.
Visto che Dante attinge sempre da fonti certe, possiamo prendere in parola gli antichi commentatori che la vogliono sposa di Nello de’ Pannocchieschi, podestà di Volterra e Lucca, il quale la uccide per non si sa quali motivi. C’è chi parla di gelosia, chi invece sostiene che Nello, volendo sposarsi con Margherita degli Aldobrandeschi, decide di uccidere la prima moglie. Non si sa neanche il come venne uccisa, pare gettata dalla finestra del castello in Maremma.

Comunque sia basta per gridare al mondo, anche se in modo mite come la carezzevole voce di Pia, che il marito è un assassino e che nonostante tutto lei sarà salvata.
Le tre anime incontrate hanno tutte ancora un forte legame con il proprio corpo e con quanto accaduto in vita, ma di certo si distinguono da quelle incontrate all’inferno.

Il prossimo mese analizzeremo il canto di Sordello, con una denuncia alla degradazione politica dell’Italia che comprenderemo sicuramente bene.

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