Per molti può sembrare un qualcosa di insensato, ma vi garantiamo che la chiamata alla scrittura non viene di certo dopo anni e anni di ponderazione, è invece improvvisa. Nel caso di Murakami, stava sostenendo la sua squadra di baseball, gli Yakult Swallows, al Meiji Jingū Stadium, quando durante un’azione del gioco, la mazza colpì la pallina e l’eco di quel tocco fece nascere in lui la voglia di mettersi a scrivere.
A fine partita passò in cartoleria per comprare il necessario e passò le successive notti a scrivere il suo primo romanzo breve, “Ascolta la canzone del vento”, per poi dedicarsi alla scrittura come vero e proprio lavoro alla fine del continuo, “Flipper, 1973”. Questi primi due racconti sono la base per “Nel segno della pecora” riconosciuto come suo primo e vero romanzo.
In questa breve intro, Murakami ci spiega anche qual era il suo modus operandi per lo scrivere: non sapendo da dove iniziare, decise di andare dritto al punto, pur mantenendo le emozioni e per poterlo fare decise di scrivere prima in inglese, lingua di cui conosceva pochi vocaboli essenziali, per poi ricopiare tutto in giapponese. È così che si concretizza il suo stile narrativo.
Scoprirà poi che anche l’ungherese Ágota Kristóff adottava questo metodo per i suoi primi romanzi, scritti in origine lingua francese.
Il protagonista della storia, di cui non conosciamo il nome, ci racconta quello che gli è successo durante le due settimane dell’agosto 1970 quando è ritornato nel paese di origine per le vacanze estive dall’università, dove stava studiando biologia.
Stiamo leggendo una specie di biografia anche se il ragazzo, ormai divenuto uomo visto che sono passati almeno dieci anni dalle vicende narrate, si scusa con i lettori perché non si sente in grado di scrivere. È un fan di Derek Heartielfd – scrittore americano degli anni Trenta e del tutto inventato – perciò tende più volte a far notare come il suo stile sia simile a quello del suo idolo, forse per tutte le letture avute.
Le vacanze scorrono monotone, anche perché passa tutto il tempo dentro al Jay’s Bar assieme al suo amico soprannominato Sorcio e il proprietario del locale, Jay, appunto. I due bevono birra e fumano sigarette a non finire, parlando della loro vita e confidandosi con Jay che non manca di consigliarli come meglio può.
In uno di questi giorni il ragazzo incontra una ragazza svenuta sul pavimento del bagno e decide di portarla a casa per assicurarsi che si riprenda senza problemi.
Al mattino lei si sveglia e, convinta che lui l’abbia molestata, lo tratta con disprezzo, anche se tutto ciò non dura molto. I due cominciano a parlare, lei scopre la passione di lui per gli animali e lui scopre che lei ama la musica così tanto da lavorare in un negozio di dischi, finché il rapporto comincia a divenire più profondo.
Ci fermiamo qui con la trama per non rovinarvi il finale, nel caso vogliate acquistare il volume “Vento & Flipper”. Attenzione, però, perché le nostre considerazioni sul racconto potrebbero contenere piccoli spoiler.
Leggere Murakami è facile e difficile allo stesso tempo. La lettura è scorrevole, veloce, intervallata da tratti profondi e ironici che ci permettono di assorbire ogni pensiero e dialogo proprio come se stessimo parlando con i nostri amici più intimi. Ma è anche vero che ci troviamo, come sempre accade con lui, davanti a situazioni al limiti dell’assurdo, tanto da chiederci quali significati oscuri siano celati dietro quali metafore, nel caso ce ne fossero, poi.
È indubbio, comunque, che in “Ascolta la canzone del vento” il tema affrontato è quello dell’abbandono, del constatare che tutto, prima o poi, passa e cambia; nulla rimane come prima.
Data la giovane età, il protagonista si è confrontato con questo tema solo per le situazioni romantiche del passato: con la classica fidanzatina del liceo e la storia finita non si ricorda come e perché; con un’hippie che è entrata in casa sua senza un motivo e come è arrivata è andata via; e con un’altra che si è suicidata senza lasciare un bigliettino, una spiegazione, un motivo valido.
È come una storia che si ripete: la sua vita che scorre con personaggi secondari che arrivano, danno un insegnamento che non comprende e vanno via. Lui sembra non imparare la lezione, almeno non dall’inizio della storia, quando è ancora titubante se sia il caso di raccontarla o meno. Così scrive:
“Gente di tutti i tipi è venuta a raccontarmi delle cose, mi è passata sopra come se fossi un ponte, e non è più tornata indietro. Eppure per tutto il tempo non ho aperto bocca, non ho fiatato. È in questo modo che ho vissuto fino ai trent’anni.”
Non sappiamo neanche come inquadrare il ragazzo, per lo meno per come descrive se stesso. È veramente difficile perché lo vediamo come uno studente appassionato, con amici e un passato che fa pensare a una vita sentimentale più o meno solida, tanto che la relazione con la ragazza del mistero si fa piano piano più intensa, insomma, sembrano non esserci le premesse di un problema sociale, eppure è come se non si sentisse di appartenere davvero a qualcosa.
Non parla della sua famiglia, né di un qualsiasi evento che lo abbia sul serio colpito. Anche quando racconta del suicidio della ragazza, lo fa con distacco, commentando con un semplice: “Almeno so che quando venni a conoscenza della morte di lei, fumai la mia seimilanovecentoventiduesima sigaretta.”, come se la notizia non l’avesse sconvolto, tanto che nel capitolo a lei dedicato procede nella descrizione iniziando con un poco elegante: “Non era certo una bellezza” e anche se dopo si riprende ammettendo: “Ma questo modo di esprimermi non le fa giustizia. Sarebbe meglio dire che «non era bella come meritava di essere»”. Allo stesso tempo, però, di lei conserva solo una foto con una data. E sui motivi della morte: “No, nessuno sa perché sia morta. Dubito persino che lo sapesse lei stessa”. Verità o non è mai entrato davvero in profondità con lei?
Qualche altra perplessità arriva da come descrive la sua città natale:
“In questa città ci sono persone di ogni genere. Nei diciotto anni in cui ci ho vissuto, ho imparato tante cose. Ha salde radici nel mio cuore, e tutti i miei ricordi vi sono legati. Ma quando me ne sono distaccato, nell’anno in cui sono entrato all’università, ho provato un profondo senso di sollievo. Durante le vacanze estive e primaverili comunque ci torno, ma passo quasi tutto il mio tempo a bere birra.”
Notiamo come se si sentisse in dovere di parlarne bene, di farla vedere come un legame o un’identificazione importante per il suo Ego: è stata la sua insegnante, è salda dentro di sé… eppure ammette allo stesso tempo che si sente sollevato lontano da lei, tanto che quando ritorna passa il tempo a bere birra, come un modo per evadere.
Forse si comporta così perché lui non crede esistano persone forti, solo persone che fanno finta di esserlo, per questo vive sì i suoi giorni, ma con distacco. Forse per lui è più facile lasciare che le cose accadano senza troppe reazioni emotive, perché sa che qualsiasi scelga di avere, non cambierà la sorte che il destino ha in serbo per lui.
Nel primo capitolo di questa saga lo vediamo senz’altro come un ragazzo in balia degli eventi, che rimane impassibile e freddo solo per avere l’illusione del controllo. Ma è anche vero che il tutto può sembrare distaccato perché racconta l’estate del ’70 nei primi anni Ottanta.
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