Lo scorso 28 giugno è arrivato nelle sale italiane “Indiana Jones: Il quadrante del destino”. Il pubblico così tornerà all’interno di quelle atmosfere che hanno reso iconico questo personaggio negli anni ’80.
Tornano, dunque, tutte le tematiche che hanno reso Indy un eroe per (almeno un paio di) generazioni, ma dopo il flop del quarto capitolo ci si avvicina a questa pellicola con qualche remore. Vedere Harrinson Ford che a ottant’anni impugna, nuovamente, la sua frusta è abbastanza strano.
La storia si apre portandoci nel 1939, qualche anno prima degli eventi che hanno portato alla sconfitta di Hitler e dei suoi piani di conquista. Una storia recente che andrebbe rinfrescata e studiata anche con le conseguenze che vi sono state. Indy è intento a sventare la trafuga di opere che i nazisti stanno compiendo, considerato che molte di esse venivano portate nei caveat del Führer perché si riteneva che avessero proprietà magiche. Tra di essi, tenuto saldamente dalle mani dell’antagonista di questo capitolo, (interpretato da Mads Mikkelsen) vi è proprio parte del quadrante inventato da Archimede. Si ritiene, infatti, che esso abbia la capacità di permettere i viaggi nel tempo, ma sarà il corso del film a svelarci quanto di ciò sia vero oppure solo frutto di una fantasia.
Ci si sposta, dunque, al 1969 anno in cui uno stanco Professor Jones si appresta a svolgere la sua ultima lezione di storia prima del pensionamento. È un uomo esausto, che si è lasciato andare a causa della perdita del figlio. Il divorzio con la moglie è quasi un pensiero fisso. In lui vengono incarnate tutte le caratteristiche di qualcosa che ormai appartiene al passato: non viene ascoltato, non viene seguito, che sia stremato è fin troppo evidente. Non siamo più davanti all’eroe che è sopravvissuto a decine di colpi di pistola rispondendo con la propria frusta, ma ci troviamo davanti a un uomo in declino che non ha più stimoli per poter rimetter in piedi la sua vita. Durante questa lezione, però, l’unica pronta a fornire delle risposte agli interrogativi posti alla classe, è la sua figlioccia Helena (Phoebe Waller-Bridge): colei che rintraccia Indy per poter prender possesso del quadrante che aveva per tempo custodito suo padre.
Da qui parte il richiamo all’azione del nostro eroe: si mette in moto la narrazione e rapidamente lui prende frusta e cappello pronto a dichiarare guerra ai nazisti.
Quello che questo capitolo fa è cercare di puntare l’attenzione sulle tematiche che tanto facevano presa sul pubblico negli anni di uscita dei primi capitoli. Il ritorno dei nazisti, infatti, rivanga quel momento storico tanto vicino agli anni ’80, quanto non freschissimo alla nostra memoria. Ricordiamoci, infatti, che stiamo vivendo un periodo storico-culturale che è più incline alla cancellazione storica, piuttosto che allo studio di essa. Siamo nel 1969, anno in cui l’uomo ha messo piede sulla luna e se lo ha fatto è stato proprio perché molti degli scienziati e degli ingegneri impiegati nel conflitto mondiale erano stati assunti dalle diverse organizzazioni statali per poter continuare le loro ricerche. C’è, dunque, della verità in tutta la mitologia creata all’interno di questo capitolo, ma il modo con cui la storia viene trattata necessita di conoscenze pregresse. Ciò emerge anche grazie ad alcune delle battute che i personaggi si scambiano in alcuni momenti. La storia, però, viene trattata esattamente come il nostro protagonista: viene data per scontata. Abbiamo, dunque, una narrazione che ancora una volta si condensa in “buono contro cattivo”, “Indy contro i Nazisti”, in un contesto fatto di cliché. Basti pensare alla Siracusa degli anni ’60 per capire quanto si faccia leva sulla stereotipizzazione. Non che questo sia necessariamente un elemento negativo, ma è un fatto all’interno dello svolgimento del film.
È palese che la Disney voglia continuare a spremere, quanto più a lungo possibile, il povero Harrison Ford e l’amore che i fan hanno per lui, ma è innegabile che la CGI nel ringiovanimento dei personaggi sia quasi perturbante. Risulta strano, nonostante si tenti sempre di fare un buon lavoro, osservare un attore “meccanicamente” ringiovanito, tanto che si tira un sospiro di sollievo nel vederlo “stanco e affaticato” nelle scene successive. È quasi macchinoso vederlo agire come un trentenne, vederlo muoversi sullo schermo accanto a stunt più giovani e prestanti. Ed è questa anche la principale ragione per cui il tutto risulta forzato e “pesante”.
Indy gioca con l’effetto revival e con l’amore che i fan hanno per il suo protagonista, il film si sorregge principalmente grazie a tali elementi. È Ford che conferisce la voglia di andare in sala al fan, ma non è detto che il pubblico sia eterogeneo. La fascia interessante è quella dei fan, quella di chi è cresciuta guardando il suo eroe sullo schermo (grande o piccolo che sia), adesso è storia. L’immaginario di Indiana Jones funzionava perfettamente se inserito negli anni ’80, funziona meno adesso.
Non possiamo dire che sia un film orribile, ma non ci sentiamo neanche di promuoverlo a pieno. Ci sono cose che funzionano e altre che invece non lo fanno e avremmo preferito altre scelte sul finale. Indiana si contrappone a ciò che la modernità sta diventando: lui col suo amore per il sapere e per la conoscenza non appartiene più a questo tempo; la contemporaneità è fatta di avidità e di mera ricerca del guadagno. Una contrapposizione che funziona nella dicotomica che si viene a creare tra lui e la sua figlioccia, ma che si concretizza ancor di più se, meta-cinematograficamente, ci rendiamo conto quanto si voglia continuare con questo franchise.
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