Autunno 1980
Si dice che anche nella relazione più affiatata e passionale, la voglia fisica si esaurisca, prima o poi. Che con l’avvento delle responsabilità, dei bambini, dell’età… il tutto sia confinato nell’abitudine di svegliarsi al mattino e addormentarsi alla sera con accanto sempre la stessa persona. Che all’inizio quella persona la vediamo come una grazia piovuta dal cielo, ma che poi si arriva a quarant’anni senza riconoscere chi abbiamo accanto, o peggio: senza riconoscere noi stessi. A un certo punto abbiamo il volto serio, come quelle foto di fine Ottocento, e che se la bocca sorride, gli occhi non rispondono allo stesso comando. Ci si guarda allo specchio solo per pochi secondi, per sfuggire alla domanda: “Ma che sto facendo?”. Ci vediamo nelle foto senza riconoscerci. La vita, insomma, prima o poi, ci crolla addosso e ci sveglia, prendendoci a schiaffi.
È così per tutti? Probabilmente no. Chi ha vissuto sempre nel presente, con la consapevolezza di sé, fa errori, ma non ha mai rimpianti. Sa riconoscere negli altri se stesso, sa rimediare, perdonare e perdonarsi. Ma forse tutto ciò è prerogativa degli artisti, o delle persone spirituali. Arte e spiritualità sono un po’ la stessa cosa, così, con un lavoro su se stessi, si può arrivare a quarant’anni riconoscendosi.
Forse Agatha è più spirituale che artista, ma se è vero che l’arte è in ogni cosa, è anche nell’essere madre. Non è semplice saper organizzare le giornate dei bambini, averli impegnati, anche se fuori piove o fa troppo freddo per farli uscire. Fortunatamente Maxima, Alexander e Constantine sono tranquilli, anche abbastanza studiosi. Di primo impatto nulla del carattere dei tre sembra essere suo. Ricordano molto Philip: diligenti, rigorosi, forse con poco slancio d’entusiasmo. A volte si chiede se sia colpa sua, se risentano delle due settimane l’anno in cui lei parte per Roma per “interesse spirituale”, che solo per tre persone vuol dire: per vivere davvero.
Ha letto da qualche parte, forse in uno dei romanzi gialli che ama leggere, che per tenere un segreto nascosto il più a lungo possibile bisogna metterlo alla luce del sole. Secondo alcune filosofie, è così che fa Dio con l’essere umano: Dio è in ogni cosa visibile e invisibile, per questo gli uomini non riescono ad afferrarlo veramente, e quando lo fanno, dopo pochi attimi, sfugge di nuovo al loro intelletto.
Tenere il loro amore segreto è stato facile, quando hanno cominciato a ragionare in questo senso. John e Paul vivono quotidianamente nella sua casa, assieme a Philip, nei nomi che hanno scelto per i bambini. Nomi che ricordano Roma e che Philip ha accolto di buon grado per la storia che hanno dietro. Avrebbe forse preferito nomi inglesi, dello stesso impatto? Nessuno può dirlo, come nessuno può dire cosa gli passi davvero per la testa. John e Paul hanno frequentato a lungo la loro casa, fino allo scioglimento del gruppo. Philip è stato a contatto anche con Linda, Cynthia, George, Ringo, persino Yoko. Ma non è mai sembrato particolarmente entusiasta di ciò. Eppure non si è mai lamentato.
Lui ha solo voluto pensare al mantenimento della famiglia, a dare abiti nuovi per ogni stagione, una casa solida, ad aggiustare o rimpiazzare qualsiasi cosa si rompesse. Philip ha insegnato ai figli ad andare in bicicletta, ha costruito per loro una casa sull’albero, li ha portati in vacanza, quello è bastato, ha la coscienza pulita. È un buon padre e un marito impeccabile, che non ha mai fatto mancare nulla alla moglie, e di certo abbastanza moderno da farla viaggiare da sola e farle nutrire così altri interessi. “Agatha viene da una famiglia internazionale, è normale aspiri a conoscere nuove culture. Ma tranquilli, non diventerà cattolica.” Si è giustificato così con i suoi colleghi e sua madre, dalla quale va con i bambini quando, ogni autunno, Agatha parte per Roma. Una madre più terrorizzata dal fatto che la nuora possa convertire se stessa e i nipoti. Come se il cattolicesimo fosse un virus letale.
Autunno 1967
Fuori piove da ore e probabilmente pioverà per altrettante ore. “Anche una città solare come Roma ha i suoi giorni no”, pensa Agatha portandosi sulla punta del naso una foglia autunnale raccolta da Villa Borghese il giorno prima. Non c’è più stata una Parigi, città meravigliosa e rispettabile… ma non è Roma. Non che a Roma i due siano sconosciuti, anzi, ma nessun italiano si aspetta di vederli girare per le vie del centro. Sembra quasi che ai romani non interessi lo status sociale, o con chi stiano parlando. O semplicemente, hanno visto così tanti personaggi famosi, da Giulio Cesare ai Beatles, che ormai non ci fanno più caso. Con cappello e occhiali scuri, hanno girato indisturbati nelle ore buie del pomeriggio e della sera, e se anche qualcuno li ha riconosciuti, non lo ha dato a vedere.
Forse agli italiani interessa più il fatto che una donna se ne vada in giro con due uomini, perché le uniche occhiate incuriosite, sono state rivolte proprio a lei. Ma comunque tutti hanno avuto il buon senso di non criticare, o così crede lei. In effetti, come può sapere i commenti che le sono stati fatti? Non conosce l’italiano, oltre il “buonasera” e “buongiorno”.
Roma dà loro più libertà rispetto a Parigi, ma entrambe le città mantengono il loro segreto. Anche a Roma l’albergo non divulga i loro veri nomi, e i camerieri lasciano gli ordini dietro la porta, annunciati a colpi di nocche.
Agatha sospira pensando a tutto ciò, stringendosi il braccio di Paul attorno al petto, lui le bacia il collo. Seduti sopra il mobile posto leggermente sotto al davanzale della finestra, lei sta osservando i sampietrini bagnati, lui il cielo grigio, eppure più luminoso rispetto a quello di Londra. Lei si volta e lo guarda, solo allora Paul abbassa lo sguardo. In quei pochi secondi prima del bacio, Agatha assapora la vera felicità, quella rara sensazione che rende tangibile anche l’aria e che ti fa pensare: “Sono nata per vivere proprio questo momento”. Chissà quanti altri hanno la fortuna di assaporare questa consapevolezza.
Primavera 1968
Le lacrime agli occhi e un sorriso che non accenna a spegnersi, così, da non sa quanto tempo. Agatha ha sul suo braccio destro una creaturina rosa, che si è appena calmata dal lungo pianto estenuante di chi ha utilizzato tutte le proprie forze per arrivare in questo mondo. La piccola non riesce a tenere gli occhi aperti, e quando lo fa, incontrano quelli della madre, Agatha rivive quella sensazione di felicità dell’autunno precedente. Per accarezzarle l’intera guancia, bastano due dita e questo fa stringere il cuore all’interno del suo petto. Per ora esistono solo lei e la sua bambina ancora senza nome. Le dà un bacio sulla fronte e poi la affida all’infermiera per il primo bagnetto.
«Come si chiama questa meraviglia?» Le chiede gentilmente.
John le ha promesso che sarà un’ottima madre, ma lei non ci crede molto. Ha passato l’intera gravidanza ad avere dubbi sul suo ruolo, su quello che era giusto o non giusto fare.
«Tu non ti senti mai in colpa per Cynthia, o Julian?» Ricorda ancora
come John posò la chitarra a terra dopo quella domanda. Si voltò senza
guardarla, sistemando dei fogli. Rimase in silenzio così tanto che
Agatha continuò, quasi giustificandosi. «Dicono che questi anni siano
facili per i giovani, non si rendono conto di quanto sia complicato.
Abbiamo la libertà di scegliere, per questo che è così difficile…»
John diede un colpo al tavolo, e questo fece zittire Agatha. «Sì. Mi
sento in colpa.» Si girò verso di lei, con quello sguardo arreso, perché
a lei di certo non poteva mentire. «E quando mi ci sento ti maledico,
ecco perché cerco di non farlo mai.»
«Perché mi maledici?»
non c’era nessuna accusa nella sua domanda, solo curiosità. Per questo
John l’ha sempre amata: non si è mai sentito giudicato.
John si avvicinò, inginocchiandosi, per poterla guardare negli occhi.
La gravidanza a poche settimane dal termine le aveva conferito un posto
d’onore in una poltrona degli studi di Abbey Road.
«A volte,
quando vedo che ti accarezzi la pancia, o che parli con George e Ringo
sui possibili nomi, mi viene questo flash dove il bambino è mio, o di
Paul, e lo cresciamo insieme. Penso che se fossimo stati di un’altra
epoca, o di un altro pianeta, sarebbe stato possibile e probabilmente
avremmo già una miriade di marmocchi. Allora, poi, ricordo che se ci
fossi sempre stata, non mi sarei mai sposato e non ci sarebbe stato
nessun Julian, per questo ti maledico. Mi fai sognare una vita più
bella, dove il mio vero figlio non è stato neanche concepito.»
Agatha era rimasta senza fiato, John l’ha sempre guardata negli occhi,
parlando in modo lento, il tono di voce basso, come suo solito. «A
proposito,» fa John alzandosi e tornando col sorriso, «chiamalo Maximus,
Maxima, se femmina, o comunque qualcosa del genere. Ha la madre
migliore che può avere, il nome non deve essere mediocre.»
«Allora?» sembra che l’infermiera non si sia mai mossa da lì.
«Maxima.» sorride Agatha, poi chiude gli occhi per riprendersi dalla fatica del primo parto.
Autunno 1980
In uno sguardo fugace allo specchio, Agatha vede tutta la sua vita scorrerle davanti. Ultimamente sta diventando più malinconica, non sa il perché. Forse sua madre ha ragione: più passa il tempo, e più l’approssimarsi dell’inverno mette malinconia. Disfa la valigia e sente di doversi sedere a terra, per un mancamento. “È l’ultima volta”. Una voce nella sua testa sembra ammonirla, come se preannunciasse qualcosa di tragico.
John e Paul entrano arrivano dal salottino della suite, la vedono con la testa sul pavimento, e si precipitano da lei preoccupati.
«Che hai?» Paul l’aiuta a sedersi almeno sul letto.
«Non lo so, mi gira la testa…»
John apre la finestra, e arriva subito una ventata d’aria fresca. Questa volta non piove, a Roma c’è una splendida giornata di sole.
«Forse è meglio se non usciamo, stasera.» La rassicura Paul.
«Già, mi chiedo cosa potremmo mai fare tutto il giorno in stanza.» John li guarda malizioso, la risata di Paul, quella genuina, quasi infantile, fa sentire subito meglio Agatha.
«E se questa fosse l’ultima volta, per noi?» rivolge quella domanda per cercare una risposta che la rassicuri.
John e Paul si guardano per un attimo, ma distolgono subito lo sguardo. Si sono chiariti dopo gli anni lontani, ma si sentono ancora idioti ogni volta che ci pensano. Quanto hanno perso l’uno dell’altro, solo per orgoglio? E quanto è stata colpa di uno, quanto dell’altro? Si sono odiati, insultati, hanno portato rancore, eppure mai hanno smesso di amarsi. È stata Agatha a farli riunire, senza mai mettere pressioni a John o Paul. E da quando sono tornati a rivedersi, da quella primavera del ’74, effettivamente non hanno mai parlato del fatto che potrebbe riaccadere una nuova rottura tra loro. Eppure sembra così lontana come ipotesi, ora che John ha deciso di tornare a fare musica dopo anni di silenzio discografico; ora che è meno dipendente dal suo rapporto con Yoko.
«Possiamo solo vivere il presente, tesoro.»
«Già, “Tomorrow never knows”.»
Agatha sorride, già. Nessuno può conoscere il futuro, meglio non pensarci.
Inverno 1974
Agatha bussa alla porta della stanza di John, attendendo il laconico “entra”. È buio, l’odore di fumo è così stantio che lei deve tapparsi il naso per poter avanzare verso di lui. Ma prima di sedersi sul letto, apre la finestra, senza distogliere la tenda. John ha bisogno del buio. Sa di avere una sorta di privilegio: è l’unica che può vederlo in quel modo. Non è stato, infatti, lui a chiamarla, ma Yoko. I periodi depressivi di John si ripetono come le stagioni durante l’anno, e proprio come quel susseguirsi, nessuno può farci molto. Come arrivano, vanno via. Così come Cynthia, anche Yoko ha imparato a conviverci, ma quella volta è diverso. I processi, la stampa insistente, il governo americano contro, la rottura con Paul… Questa volta solo Yoko non basta.
Agatha non sa se le è mai piaciuta la seconda moglie di John, forse semplicemente non riesce a comprenderla. Con Cynthia e Linda è semplice, sono molto simili a lei, riescono ad amare senza alcuna condizione, neanche quella della fedeltà. Tra le tre non c’è mai stata gelosia, meno che mai rivalità. Con Yoko è del tutto diverso. Sembra volere il controllo assoluto su John, eppure, quando glielo si concede, sa mettersi da parte, lasciandolo libero. Anche Yoko è un enigma, ma non è compito di Agatha risolverlo.
Si avvicina accanto a John, sdraiato a petto in giù, la guancia destra sul cuscino e uno sguardo perso verso il vuoto. Agatha gli accarezza i capelli, li sente unti, chissà da quanto non si lava.
«Gathie.» dice con un filo di voce.
«Sh.» si inginocchia davanti a lui, lo bacia sullo zigomo sinistro che sente bagnato.
John chiude gli occhi, addormentandosi.
Dopo due ore Agatha ha ripulito quel che poteva della stanza, scostando un po’ di più la tenda e facendo entrare una leggera luce del giorno. John si sveglia del tutto, ma gli ci vuole del tempo prima di capire che la donna che vede davanti ai suoi occhi è reale. Come può Agatha trovarsi lì, a New York, a fine febbraio?
«Che ci fai qui?» si accende una sigaretta e butta il fumo nella sua direzione, studiandola.
«Mi ha chiamata Yoko.» Il tono è freddo, tale e quale a quello utilizzato da John.
Lui già spegne la sigaretta, si porta le mani sulla testa.
«Che cosa sto facendo?»
Agatha abbandona ogni resistenza, si avvicina e gli bacia la testa. «È tutto ok, Johnny.»
Sentendo quel nomignolo, dopo anni, anche John lascia andare ogni ostilità e piange contro il petto morbido di Agatha, come non faceva da tempo. A lei non serve sapere cosa ha, cosa vuole tirare fuori, lo comprende. John ha passato gli ultimi quattro anni in una spirale ininterrotta di progetti, entusiasmo per il nuovo. Si è detto di stare bene, di non aver bisogno di nulla al di fuori di se stesso, ma in realtà ha avuto una dipendenza ben più forte di quella per le droghe: la dipendenza verso una persona. E in questa continua sete di amore, ha smesso di sentire gli unici due che con il loro amore lo hanno sempre lasciato libero di agire. Non ha mai avuto dei fili con Agatha e Paul, eppure per questo ha avuto paura. Paura della libertà.
«Non mi merito di averti.»
Agatha scuote la testa, cominciando a piangere. Non riesce a rispondere, quindi lo stringe di più a sé. Conosce quel dolore, sa da dove nasce. Dal sentirsi rifiutato, dall’essere cresciuto con la zia che mai l’ha capito, da un padre che l’ha abbandonato, dall’avere all’interno del suo inconscio la consapevolezza che sua madre è morta mentre stava andando a trovarlo. Pensa di non meritarsi l’amore.
Gli bacia la testa, poi la fronte, e in ogni bacio Agatha capisce quanto sia stata dura per John accettare l’amore per lei, ma soprattutto per Paul: un uomo. Quanto sia stata dura per John essere un padre, fare il padre. Come può sentirsi un adulto che fin dall’infanzia sa di non essere voluto da chi avrebbe dovuto amarlo a prescindere? Per John l’amore è abbandonare la persona, e la dipendenza da qualcuno è solo un modo per ferirsi, perché la sofferenza, la miseria, è ciò che pensa di meritare davvero.
«Ascoltami.» lo guarda fisso negli occhi, ora privi di sfida, della scintilla della vita. Dio, quanto le fa male al cuore tutto ciò. Lo guarda e si sente morire per la sofferenza che lui ha patito senza mai esprimerla. «Tu mi meriti, e meriti tutto l’amore che io e Paul ti possiamo dare.»
«Vi ho perso.»
«No, amore mio.» da quanto non pronunciava quelle parole davanti a lui? Da così tanto tempo che sembrano essere state pronunciate per la prima volta. «Non ci hai mai persi.»
Autunno 1977
Cosa fa grande una persona? Di certo il suo comportamento, la rettitudine, la gentilezza. Ma il vero rispetto lo si dà a chi mette da parte l’orgoglio, anche solo per un attimo. Agatha si innamora sempre di più dei suoi due uomini, quando li vede baciarsi, stringersi, accarezzarsi. E dire che il mondo fuori da quella stanza regala medaglie a uomini che uccidono altri uomini, e il manicomio a uomini che amano altri uomini. A volte si distacca durante i loro rapporti, semplicemente per guardarli, accrescendo il suo amore.
Durante il liceo pensava fosse frutto dell’adolescenza che fa impazzire o semplicemente ribellare. Gli anni distanti sono stati quasi la conferma che ciò non poteva resistere, poi l’incontro da adulti, il riprendersi per ricominciare, e continuare ad amarsi. Forse era solo la negazione del tempo che è destinato a passare, o la pazzia delle rock star. Lo scioglimento dei Beatles e la divisione per altri quattro anni le hanno quasi fatto credere che era tutta illusione, che il rapporto era malato proprio come la società lo avrebbe etichettato. Eppure, alla soglia dei quarant’anni, con nuove famiglie, nuove responsabilità e nuovi interessi, eccoli di nuovo lì: semplicemente ad amarsi.
E come si ama di più quando si scopre che chi hai davanti ha lottato contro i suoi stessi demoni, accettando l’oscurità e mettendo da parte l’arroganza che ci fa credere superiori, che ci spinge a mentire a noi stessi, a farci credere che non abbiamo bisogno di chi ci ha fatti soffrire, che siamo migliori.
Paul fa sdraiare John sul letto, continuando a baciarlo. Cinge con un braccio la vita più rotonda di Agatha, che li guarda, ancora persa nei sentimenti che prova per loro. Forse per alcuni fuori da quella stanza sono meno uomini perché si stanno amando, perché in un attimo l’uno è dentro l’altro e godono entrambi dei loro corpi. Ma lei, da dentro, sta guardando due uomini che hanno scelto l’amore sopra ogni altra cosa. Quanti possono dire la stessa cosa?
9 dicembre 1980
“Close your eyes and I’ll kiss you/Tomorrow I’ll miss you/Remember I’ll always be true/And then while I’m away, I’ll write home everyday/and I’ll send all my loving to you.”
«Johnny?!» Agatha è sorpresa dalla canzone che lui sta canticchiando «Perché stai cantando tu questa canzone e non Paul?»
John la prende per mano e la fa girare con una piroetta. Quando lei torna a guardarlo, ha quindici anni. Le stringe la mano che lei tiene sul suo petto, come la scena del loro primo bacio. E infatti la bacia, lei sente le ginocchia tremare, avverte le prime calze acquistate con i suoi risparmi, e la gonna che le stringe la vita, messa per fare bella figura davanti a lui, ma che non la lascia respirare. Non pensava di riuscire a rimorchiare proprio il ragazzo più ribelle della zona, eppure l’ha baciata.
«Che c’è, Gathie? Non sei mai stata una nostra fan, e ora sai chi canta quale canzone?»
Agatha ride, annuendo. Poi John torna ad avere quarant’anni, è serio.
«Ci vediamo.» fa un occhiolino, poi un inchino e sparisce.
Agatha rimane sola, infreddolita. Apre gli occhi. Guarda in direzione della sveglia, le 04:09 del mattino. Era solo un sogno, ma quel “ci vediamo” le ha provocato un senso di nausea, di peso sul petto. Si alza stando ben attenta a non svegliare Philip, e riavverte lo stesso capogiro. “L’ultima volta”. Di nuovo quella sensazione, che vuol dire? Indossa la vestaglia, si alza dal letto ma è come se lei non fosse dentro il suo corpo. Chissà chi è che l’ha spinta verso il soggiorno, chi è che le ha dato l’idea di accendere la radio, in attesa.
“È surreale”, pensa. “Ogni stazione radiofonica attiva trasmette solo i Beatles.” Il cuore accelera i battiti, sente di dover gridare, di chiedere aiuto, ma non riesce a emettere alcun suono. Avrebbe voglia di acqua, di sostegno, ma ancora, rimane impietrita. Si accorge di stare piangendo, e forse per i singhiozzi sveglia Alexander, lo vede sulla soglia della porta, un ometto di dieci anni preoccupato per la madre.
«Tutto ok, mamma?»
«Sto bene, tesoro. Ho fatto solo un brutto sogno, capita anche ai grandi.»
Il bambino si avvicina alla madre, accoccolandosi sulle sue gambe, come se fosse di nuovo piccolo. «Allora resto con te finché non ti riaddormenti.»
Agatha accarezza i capelli del piccolo Alex che fortunatamente sprofonda subito nel sonno. Sorride, grata per la sua dolcezza. Allunga la mano per spegnere la radio, quando una voce seria riprende il collegamento da uno studio. Agatha si blocca.
«Purtroppo ci sono giunti aggiornamenti da New York.» Agatha sbarra gli occhi. New York? Aggiornamenti? I Beatles? Purtroppo… «John Lennon è appena deceduto.»
Philip si è offerto di preparare la colazione ai bambini, lei è rimasta seduta sul divano per tutto il tempo. Ha finto un po’ di febbre e quando ha avuto del tempo per rimanere sola con marito, ha tirato fuori quelle lacrime che mai avrebbe pensato di versare. Forse è stata la prima volta in cui Philip l’ha sostenuta davvero, abbracciandola nel silenzio. Poi ha pronunciato quelle parole: “Ti accompagno da Paul.”
Ad aprirle la porta, nell’alba londinese, è stata Linda. Maxima, Alexander e Constantine anche se assonnati, sembravano delusi dal non potere giocare con i loro amici, i figli di Paul. Non sanno nulla, Philip sta ripartendo per portarli a scuola. Loro in fondo non conoscono così bene John, non è come Paul, una specie di zio… “Non conoscevano”, “non era”, Agatha riformula quelle parole a mente e piange di nuovo, di fronte a Linda. La fa accomodare allo studio di Paul, rimangono lì in silenzio. Linda le accarezza i capelli e le asciuga il viso. È proprio come Paul: fredda ma dolcissima.
«Non credo che questo sia il luogo più adatto, per te, ora.»
Agatha scuote leggermente la testa, non è il momento di sentirsi l’esclusa solo perché non ufficialmente riconosciuta, ha bisogno di Paul, ma non ha neanche le forze per dirle tutto ciò.
«Voglio dire…» Linda sembra leggerle i pensieri. «Che Paul è agli studi di Abbey Road, dovresti stare lì, con lui.»
Linda le sorride per un attimo e poi la bacia sulla guancia, chissà cosa pensa. Una morte così improvvisa, senza un vero perché. Deve essere dura per tutti, forse deve sentirsi un po’ come Philip: vedono la persona che amano soffrire e non possono farci nulla.
«Ti accompagno io, dopo che ho salutato i bambini.»
Linda esce dallo studio, e Agatha si sente di nuovo da sola, infreddolita.
Quando arriva allo studio, Paul è seduto a terra, le gambe sdraiate, la schiena poggiata al muro. Una bottiglia di un liquore costoso nella mano sinistra. Della musica avvolge l’atmosfera, ma non serve poi a molto, se non a tentare, invano, di sopprimere i pensieri. Guarda Agatha, ma quasi non la vede.
«Avremmo dovuto fare tanto, aspettavamo il momento giusto per tornare a lavorare insieme…»
Agatha si siede accanto, Paul le prende la mano stringendogliela. È stato raro, per lei, vedere Paul piangere, ma ora lo sta facendo. Agatha non ha mai smesso. Paul nasconde la sua testa tra la spalla e il collo di lei.
Come può essere la vita dopo John? La sera precedente, come ogni sera, lo aveva sentito. Era pomeriggio a New York e lui doveva andare a lavorare a un album. E adesso non avrebbe più potuto sentire la sua voce, i suoi ammonimenti, i suoi consigli, il suo amore. Non ci sarebbe stata un’altra Roma. E quasi la sua adolescenza le sembra sparire, come se fosse stata vissuta da un’altra persona e lei la stesse vedendo sullo schermo di un cinema.
Agatha accarezza i capelli spettinati di Paul, come ore prima aveva fatto con Alex, ignara del dolore che avrebbe dovuto affrontare. Solo nel pomeriggio, dopo qualche bottiglia scolata insieme, Paul riesce a parlare sul serio. «Sai cosa mi fa più rabbia? Che sia andato via così, ucciso.»
Agatha chiude gli occhi, deve trovare il coraggio di rispondere, ma soprattutto di accettare il fatto che John non ci sia più. Sente le palpebre pesanti, come la sua testa, la sua bocca, e ogni muscolo del corpo. Le fa male respirare, parlare, ma deve. «Mi sono alzata alle 4:09.» Spiega lentamente. Ci sono secondi di silenzio dopo l'orario. Nove. Loro sanno cosa vuol dire. «Avevo sognato il nostro primo bacio, e prima lui mi stava cantando “All my loving”.»
Paul sorride.
«Ti amo profondamente, lo sai. Ma mi sento come se avessi perso tutto.»
Paul la stringe, assaporando il profumo dei suoi capelli. «Non mi hai perso.» La rassicura. «Non abbiamo perso neanche John. Non realmente.»
Agatha lo guarda negli occhi, si ricorda dei viaggi in India e dell’idea delle vite precedenti.
Una specie di sciamano aveva detto a John e Paul che erano destinati ad amarsi in eterno, assieme a una terza persona, una donna. Facevano parte della stessa scintilla. Capita raramente, ma quando accade, le persone non possono fare altro che amarsi, nonostante l’illusione della lontananza, o della morte.
«Per altre mille vite.» si sussurrano a vicenda, fronte contro fronte.
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