Così scrive Gill Paul nella sezione “Note dell’autrice” e pensiamo che questo basti nel dirvi il perché abbiamo scelto di recensire il suo romanzo “La figlia perduta”, pubblicato nel 2019 per la Newton Compton Editori. Non abbiamo mai nascosto il nostro amore per le famiglie reali, e i Romanov hanno un posto speciale nei nostri cuori, probabilmente per l’ingiustizia subita nel loro brutale assassinio. Da come avrete dedotto, oggi vogliamo parlarvi del romanzo in cui Marija - terzogenita dello Zar Nikolaj II e della moglie Aleksandra - vive la vita di cui è stata privata troppo presto.
Della famiglia Imperiale Russa e delle molte fake news che la propaganda Comunista metteva in giro sul loro conto, ne abbiamo parlato già negli articoli sulla Zarina Alessandra e sulla Rivoluzione Russa, ormai si sa molto. Le rivoluzioni non sono note per la grazia e l’eleganza con cui vengono attuate, ma anzi, la loro crudezza, a più di un secolo, ancora ci lascia senza parole. Crediamo, però, che il mito dei Romanov sia rimasto alla storia proprio perché nessuno ha mai accettato realmente la morte dell’intera famiglia, soprattutto dei figli dello Zar. Il grande classico Anastasia, è un esempio di come ancora adesso ci piange il cuore ogni volta che ripensiamo alla breve vita di Ol’ga, Tat’jana, Marija, Anastasija e Aleksej. Ricordiamo che Ol’ga, la più grande, aveva solo ventitré anni quando fu uccisa, mentre Aleksej, il più piccolo, quattordici.
I soldati erano rimasti sconvolti dal vedere Aleksej affetto da una gravissima malattia, l’emofilia. Vedendo il piccolo Romanov soffrire terribilmente, con il volto perennemente emaciato e con gravi emorragie interne, è stato subito chiaro il perché Aleksandra avesse improvvisamente abbandonato la vita pubblica. Le motivazioni della propaganda - che descrivevano un’Imperatrice snob e menefreghista – perdevano giorno dopo giorno di valore. In più i soldati erano piacevolmente sorpresi nel constatare che la stessa Aleksandra per le figlie aveva da sempre preferito le amicizie con domestici e servi, rispetto a quelle con le persone del loro stesso rango. Gli abiti che avevano, inoltre, non erano per niente costosi o all’ultima moda, anzi. Anastasija non ne aveva neanche di nuovi, perché indossava quelli utilizzati gli anni precedenti dalle sorelle maggiori. Insomma, i soldati si erano ritrovati a controllare una famiglia come tante, che non voleva rivendicare il diritto al trono – pensiamo infatti dovesse essere stata una vera liberazione per Nikolaj rinunciare al titolo – e che attendeva dignitosamente il proprio esilio in Inghilterra, o in qualsiasi altra parte del mondo.
Ci fermiamo qui con la trama, per non fare troppi spoiler. Il romanzo percorre tutto il Novecento, giungendo fino ai primi anni del Duemila. È stato interessante notare come l’autrice abbia mantenuto il carattere dolce e gentile di Marija, con tutte le sue insicurezze – era presa in giro dalle sorelle per via del suo peso, in più pensava di non essere abbastanza amata dai genitori, tanto da aver confidato in una lettera alla madre tutte le sue paranoie – e siamo rimaste impressionate del grande lavoro nell’immaginarsi la Granduchessa maturata dopo una vita da personaggio comune, impossibilitata a ricordare pubblicamente del suo passato o a tentare una ricerca della sorella in apparenza scomparsa.
Nel romanzo la storia di Marija si intreccia con quella di altre donne russe, ma soprattutto con Val, una ragazza australiana degli anni ‘70 appassionata della famiglia Romanov, con la quale si troverà ad avere un legame decisamente inaspettato. Un romanzo sicuramente fantasioso, ma con dei riferimenti storici così accurati che abbiamo avuto l’ansia della polizia russa a ogni pagina, così come abbiamo sentito il freddo estremo della Russia, e abbiamo esultato, pianto, gridato per le gioie e i dolori che Marija ha accolto nella sua vita. Perché siamo convinte che se fosse rimasta in vita, avrebbe accettato ogni esperienza che le si fosse palesata, proprio come ha sempre accettato senza lamentele la sua prigionia.
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