Ci
sono degli abbracci che rimangono nella storia, che sia condivisa o personale. Ci
sono delle strette che scaldano il cuore e quelli mancati che fanno male. Oggi
parliamo proprio di quest’ultimi, in particolare per descrivere l’opera di De
Chirico “Ettore e Andromaca”. Si tratta di un olio su tela realizzato nel 1917
e oggi conservato nella Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di
Roma.
“Ettore, dunque per me tu sei padre, sei tenera madre,
fratello sei per me, sei florido sposo. Oh, t’imploro,
muoviti adesso a pietà! Rimani con noi sulla torre,
non lasciar orfano il bimbo, né vedova me tua compagna!”
Nel
mito di Omero, Ettore era il principe di Troia, sposo di Andromaca e padre di
Astianatte. Durante la guerra narrata nell’Iliade, il principe troiano si trova
costretto a combattere contro Achille. Nello scontro perirà, le sue urla
strazianti arriveranno fino all’accampamento dove l’amata moglie attende,
inutilmente, il ritorno del marito. Per farsi ancora più beffe dello sconfitto,
Achille legherà addirittura le caviglie del morto al proprio carro, per farlo
strisciare nella polvere.
De
Chirico racconta proprio gli istanti che precedono il tragico epilogo della
storia. Nel dipinto troviamo due figure che non hanno nulla di umano, eppure
sono in grado di trasmettere tutto il dolore di quello che sarà l’ultimo
abbraccio. Essendo un esponente della
pittura metafisica, non rappresenta
figure umane, ma un complesso di figure geometriche appoggiate su quelli che
sono due manichini da sarta, di quelli usati per ricucire i vestiti. Non ci
sono occhi, bocche, niente che possa ricondurli a esseri umani. Non stanno in
piedi da soli, anzi, sembrano retti da una piccola impalcatura alle loro
spalle. La cosa che più risulta straziante, in questo abbraccio, è l’assenza
degli arti superiori. Come ci si abbraccia se manca, appunto, l’elemento
fondamentale delle braccia? Viene quindi rappresentata l’impossibilità dell’atto
in sé, la mancanza dell’atto pratico che rende la scena ancora più dolorosa,
perché Andromaca non può dare neanche quell’ultimo momento di intimità al
marito. Non può abbracciarlo, non può trattenerlo in alcun modo.
Nell’Iliade ci prova, ma la coscienza di Ettore ha la meglio.
“Dolce consorte, le
rispose Ettorre,
Ciò tutto che dicesti a me pur anco
Ange il pensier; ma de’ Troiani io temo
Fortemente lo spregio, e dell’altere
Troiane donne, se guerrier codardo
Mi tenessi in disparte, e della pugna
Evitassi i cimenti.”
Non
può esimersi dallo scendere in campo, sa che deve farlo perché ne va del suo
onore e quello in un eroe non può di certo mancare. Sa che dovrà scendere in
campo contro il più forte dei guerrieri, quello che ha dalla sua parte il
favore degli dèi, eppure non sfugge al suo crudele destino. Dall’altro lato,
invece, abbiamo una donna straziata che ha perso tutto: ha visto morire i suoi
genitori, i suoi sette fratelli sono morti per mano di Achille e adesso vede il
marito andare incontro alla sua sorte. I due si guardano, ben consapevoli che il
fato non è dalla loro: Andromaca diventerà una concubina del figlio di Achille
e Astianatte, il figlio avuto con Ettore, verrà gettato giù dalle mura della
città di Troia perché non venga portata avanti la stirpe del re Priamo.
I
manichini sono posti in un luogo asettico, uno scenario che può essere tutto e
nulla, da un palco teatrale in cui viene messa in atto la scena o qualsiasi
piazza o strada del mondo. Come possiamo vedere, ai lati del manichino ci sono
quelle che sembrano due torri, a rappresentare le porte di Scee, quelle della
città di Troia.
“Giunta
Agli ettorei palagi, ivi raccolte
Trovò le ancelle, e le commosse al
pianto.
Ploravan tutte l’ancor vivo Ettorre
Nella casa d’Ettór le dolorose,
Rivederlo più mai non si sperando
Reduce dalla pugna, e dalle fiere
Mani scampato de’ robusti Achei.”
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