Continua la nostra analisi della Divina Commedia dal punto di vista esoterico. Premettiamo che il nono canto è molto difficile emotivamente. Potrebbe ricordare molto beme un thriller dei nostri tempi. In effetti il Canto IX è tra i nostri preferiti, proprio perché ci mette faccia a faccia con il senso del terrore. Vi ricordiamo ancora che non stiamo qui per darvi nozioni già apprese a scuola, ma per portare alla luce gli insegnamenti di Dante che sono rimasti nascosti per troppo tempo. Stiamo diventando noiose, lo sappiamo.
«Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.»
Avevamo lasciato Dante profondamente preoccupato, e un Virgilio che ha abbandonato quasi subito la rabbia per rassegnarsi al volere dei diavoli. Se Dante ha detto alla sua guida della sua preoccupazione, Virgilio non ha voluto dire nulla al poeta, per non intimorirlo ulteriormente.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non… Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
Virgilio sembra quasi impaziente per l’attesa del masso celeste che può aiutarli a entrare nella città di Dite. È un’agitazione che non lascia indifferente Dante, e infatti per non farlo preoccupare ulteriormente, Virgilio sembra quasi fermarsi nel suo discorso.
«I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.»
Purtroppo però, Dante, pur ammirando la volontà di Virgilio di non farlo preoccupare, si sente più in ansia, come se il discorso non concluso della sua guida fosse stato peggiore di qualsiasi altra cosa avrebbe voluto dire.
Quanto possiamo capire Dante! Per esperienza personale vi assicuriamo che i dubbi sul cammino iniziatico sono molti. Le domande si arrovellano nella nostra mente in continuazione e spesso non trovano alcuna risposta.
Questo dovrebbe farci sentire al sicuro, dovremmo accettare anche il fatto che non possiamo sapere tutto e subito. E in un certo senso più si prosegue, più è così. Inizialmente però, il silenzio ci agita più delle parole e immaginiamo scenari catastrofici. “Non vuole rispondermi perché sarà qualcosa di brutto.” Ora ridiamo nel mentre scriviamo ciò, ma sul momento, per noi, non c’è stato molto da ridere.
«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fec’io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritòn cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è ‘l più basso loco e ‘l più oscuro,
e ‘l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ‘l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che’ l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ira».
Dante, che continua a essere preoccupato e forse leggermente sfiduciato, chiede se qualcuno è mai venuto dal Limbo fino a qui. In un certo senso sta chiedendo alla sua guida: “Ma tu, sai cosa stai facendo?”. Così come noi, quando stiamo nel pieno dell’iniziazione e vediamo i nostri maestri non rispondere, pensiamo: “Ma loro hanno passato esattamente ciò che sto passando io? Posso davvero fidarmi?”.
Virgilio in tono amorevole e per nulla risentito dalla domanda di Dante, risponde che è raro che ciò accada, ma che lui è entrato nella città di Dite poco dopo essere morto, per riportare un’anima in vita. A dargli quel compito fu la maga Eritone, conosciuta nella mitologia come una maga necromante. Lei, infatti, si faceva pagare profumatamente per predire il futuro, aiutata dagli spiriti che riusciva a riportare in vita.
Con ciò Virgilio rassicura Dante: lui conosce bene la città e sa perfettamente come procedere.
«E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra femmine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifòn è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.»
Dante non solo le descrive dall’aspetto terrificante, ma anche i loro modi di fare risultano così spaventosi che Dante abbraccia Virgilio, come un bambino si avvicina al genitore quando è intimorito.
«Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l’assalto».
«Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ‘l Gorgòn si mostra e tu ‘l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Le tre minacciano Dante di evocare Medusa, affinché possa renderlo di pietra. Virgilio protegge Dante, dicendogli di chiudere gli occhi.
«O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi trani.»
E ora facciamo molta attenzione, perché i versi successivi sono indirizzati principalmente agli iniziati.
«E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.»
Il lettore, e siamo sicure Dante stesso, è in preda all’ansia per queste immagini mentali. Un rumore assoluto, ancora una volta spaventoso, si innalza sempre di più. Abbiamo l’impressione che sia come un terremoto, perché fa tremare le sponde, ma è anche un vento così potente da abbattere foreste e far scappare animali e pastori. Insomma, quale movimento interno può ricordarci tutto ciò se non il panico? Quando non smettiamo di tremare, ci sentiamo mancare e vorremmo solo scappare il più lontano possibile da tutto quanto. Rimanendo impietriti, però, a volte il corpo reagisce con lo svenimento, o può andare in stand-by, non facendoci ricordare nulla.
«Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
Convinti si tratti di Medusa, e quindi in preda all'ansia per questo, Virgilio ci fa rimanere di sasso quando dà il permesso a Dante di riaprire gli occhi. Non solo, gli dice di guardare in direzione del fumo più intenso, dove è avvenuto qualcosa. Ci sentiamo curiosi, ma ancora non del tutto calmi.
«Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quel’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.»
Così noi capiamo che quando non riusciamo a entrare nella nostra città di Dite, la parte più oscura e terribile in noi, la Vita ci risponde sempre con qualcosa che inizialmente ci fa paura, ma che è in realtà la sua enorme Grazia.
Nei versi successivi, mentre entrano nella città di Dite, Virgilio apre senza problemi la porta e in più rimprovera i diavoli di aver rallentato il viaggio ostacolandoli in un passaggio necessario. Ricorda un po' gli iniziati che si sentono leggermente in colpa per non aver affrontato il cammino spirituale prima. Sorridiamo per tale ingenuità, ben consapevoli che tutto accade nel momento giusto e mai prima.
«Dentro lì ‘ntrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.»
I due entrano nella città senza trovare alcuna resistenza, e questo ci dimostra ancora una volta come, quando siamo dentro il nostro dolore e non ci opponiamo a esso, riusciamo a osservarlo tranquillamente.
Lì dentro le anime (i nostri contenuti) sono pieni di dolore e spesso governati da tormenti. Possono essere sensi di colpa o voglia di vendicarsi per un orgoglio ferito, proprio come ci ha preannunciato l'immagine delle tre Furie.
E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
E quelli a me: «Qui son li eresïarche
con loro seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.»
A seguito della descrizione della città, con tombe che ricordano i cimiteri di Arles e Pola, Dante chiede a Virgilio chi siano tutte queste anime lamentose e Virgilio spiega che sono le anime degli eresiarchi.
“Simile qui con simile è sepolto”, nel senso che ognuno, gran maestro o discepolo che sia, è sepolto con le anime delle sette a cui apparteneva.
La domanda sorge ovviamente spontanea: com’è possibile che Dante, appartenente lui stesso a certe organizzazioni occulte, potesse mettere altri membri delle sette all’Inferno? Invidia? Gelosia? Credersi migliore? Ovviamente no.
Le organizzazioni occulte, come ogni Istituzione terrena, sono composte da uomini. Non tutte rimangono pure per sempre, e non tutte nascono con l’intento di accedere al Paradiso. Nel canto successivo vedremo come Dante condanna queste anime corrotte e perché.
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