Il Festival di Sanremo si è concluso da qualche giorno e, di tutta la manifestazione, ciò che ne rimane sono sicuramente le sensazioni che ci ha incollato addosso. C’è chi ha giocato e vinto al Fantasanremo; chi fa parte di quel 60% di share; o chi, invece, si è limitato all’ascolto passivo lasciandosi scivolare addosso quello che poteva essere il significato più intrinseco e profondo degli inediti. Su venticinque, tante sono le canzoni che si stanno aggiudicando il primato di ascolti in streaming sulle principali piattaforme, ma oggi voglio soffermarmi su "L’inverno dei fiori" di Michele Bravi.
Ammetto che il primo ascolto di questa canzone non mi aveva colpita particolarmente, al contrario. Complice, forse, anche il fonico o il suono non molto pulito, mi sono ritrovata davanti a un’esibizione che mi era sembrava sotto tono. Il secondo ascolto, invece, mi ha regalato dei brividi e delle emozioni sulla pelle del tutto inaspettate.
Nell’ipotesi e nel dubbio che mi fossi persa qualcosa, allora, ho deciso di procedere a un secondo ascolto. Più attenta non solo a cogliere le parole della canzone, non solo a guardare il video ufficiale, ma soprattutto a capire le mie stesse emozioni. Sì, questa potrebbe essere l’ennesima canzone d’amore che esce da Sanremo, del resto se noi umani non soffrissimo per amore, metà delle canzoni che il festival ha ospitato non esisterebbero. Ma, secondo me, c’è qualcosa che va ben oltre la superficie. Sottolineando il fatto che, Michele stesso ha detto quanto figurativa possa essere questa canzone, non so perché la mia attenzione si sia soffermata soprattutto su alcune strofe della canzone. Strofe che, in un modo o nell’altro, ho deciso di dedicare a me stessa e non a un ipotetico e futuro amore.
"Ti nascondi nei miei occhi
Ma ti lascio andare via quando piango
Ogni volta tu ritorni
Come l'aria nei polmoni e ti canto"
Queste parole, ad esempio, mettono in mostra tutta la mia parte più fragile. La fragilità, infatti, è quella che molto spesso non concedo agli altri, che non mostro a tutti, ma che nascondo dietro mura talmente tanto alte da non riuscire io stessa a vedervici oltre. Ma quando ritorna, quando arriva, quando quel muro viene aperto e vi è la breccia, beh… non posso far altro che lasciare che ciò fluisca e che le lacrime vengano accolte dal mio cuscino.
"Insegnami come si fa
A non aspettarsi niente
A parte quello che si ha
A bastarsi sempre
Uscire quando piove e poi entrare dentro a un cinema
Anche se siamo solo noi
Anche se il film è già a metà"
Ma sono queste, queste più tutto il resto del testo, le parole che mi hanno spinta a rivolgere a me stessa questa canzone. Confesso, che un po’ spero possiate farlo anche voi che state leggendo questo articolo. Perché lasciare agli altri il potere di insegnarci qualcosa su noi stessi? Qui il testo di Michele esprime quella volontà mal celata del farsi ascoltare, perché quindi non imparare noi ad ascoltare per primi noi stessi? Perché non essere noi quelli che capiscono come bastarsi e come essere felici?
Noi. Siamo noi. Solo noi. Noi stessi. Io in connessione, sì, con gli altri. Ma io. Io che devo bastarmi, io che devo capire cosa voglio, io che devo rivolgere questa preghiera che Michele stesso sembra rivolgere all’universo nel momento in cui nel video apre le braccia al cielo e guarda il proprio universo in una silente preghiera.
Non lo so, forse potrei aver sviato il senso che Michele voleva dare a questa canzone, forse non è neanche tutto quello che potrei dire su questo testo, ma diciamo che è un inizio. Un inizio che mi ha spinta a riflettere sulle mie stesse emozioni e che mi ha suggerito, ancora una volta, di prendermi un istante per me e di chiedere al mio universo solo ciò che posso imparare e ciò che sono in grado di ascoltare.
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