“Bisogna fare della propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.”
Ciò che affascina più di D’Annunzio è il suo amore per l’arte. Probabilmente è stato lui a trasmettercelo nei giorni in cui lo studiavamo a scuola. Ha passato tutta la sua vita a rivendicare la superiorità dell’arte e della cultura su qualsiasi cosa. Perché dopotutto senza di esse, non può esserci civiltà, soprattutto in un paese come l’Italia.
Noi parliamo con molti artisti e ci siamo sentite dire più volte: «Sai, se andaste a Londra, o Parigi, realizzereste il vostro sogno in un secondo». La nostra risposta è sempre stata: «Ma perché andare all’estero, se sono italiana?». Qui sembra essere tutto morente, ma non per questo dobbiamo arrenderci. E chi meglio di D’Annunzio può insegnarci l’arte di non mollare mai? Di dare la vita, se necessario, per i propri ideali? Per riportare l’Italia al massimo splendore a livello artistico?
“Canta l’immensa gioia di vivere,/d’esser forte, d’esser giovine,/di mordere i frutti terrestri/con saldi e bianchi denti voraci,/di por le mani audaci e cupide/su ogni dolce cosa tangibile,/di tendere l’arco su ogni/preda novella che il desio miri.”
In un momento storico in cui urliamo – giustamente – a pieni polmoni che una donna non deve essere giudicata per quello che fa nella sua vita privata, per il numero di partner sessuali che ha, troviamo che sia profondamente incoerente giudicare un uomo, soprattutto se appartenente a un’altra epoca, proprio come il nostro Gabriele.
Per non parlare di chi lo giudica per la sua ideologia “fascista”. Bisogna ammettere che molti intellettuali dell’epoca appoggiavano Mussolini, ma tra questi di certo non c’era Gabriele D’Annunzio. È inutile parlare di storia con la mente di adesso. La Memoria è un qualcosa di sacro, e bisogna utilizzarla sempre, ricordandoci chi eravamo negli anni di inizio Novecento, com’era l’Italia e che cosa stava succedendo nel resto d’Europa. Anche Churchill non disprezzava il fascismo, ma possiamo per questo definirlo fascista? Certo che no.
La campagna per la riconquista di Fiume parte da uno spirito, quello di D’Annunzio e quello di molti altri giovani, deluso per la conclusione della Prima Guerra Mondiale. La gioia nel ricordar l’impresa sul Piave, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto, è messa a tacere dall’esito del Trattato di Versailles (1919) che pone fine alla Grande Guerra, ma che non lascia niente all’Italia, venendo così meno al Patto di Londra (1915).
L’Italia è sull’orlo di una guerra civile. Impazzano scioperi, malcontento, tumulti per le strade. Stiamo nel famoso biennio rosso, dove Italia ed Europa tremano di fronte allo spettro del Comunismo.
“Non c’è oggi in Italia nessun movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è necessario che noi facciamo parte di noi stessi, immuni da ogni mescolanza e contagio.”
È in questo clima che D’Annunzio si avvicina alla politica, ma allo stesso tempo è anche deluso da ogni forma di movimento. Ha una tempra rivoluzionaria, una mente sempre giovane e aperta. Ma è anche una persona che ha finito di lottare, deluso dalla vicenda Fiume e dal clima che sta nascendo in Italia. È un personaggio influente, soprattutto all’estero, dove il suo pensiero conta molto. E il suo pensiero è nettamente lontano da quello di Mussolini.
Ma perché D’Annunzio è così importante per la letteratura? Torniamo indietro di alcuni decenni, fino all’estate del 1888. D’Annunzio ha tutto: un lavoro stabile come giornalista, denaro, fama, moglie, famiglia, amante… eppure per un periodo abbandona qualsiasi cosa per rinchiudersi in un palazzo chiamato “Convento” e cominciare a scrivere un romanzo: “Il piacere”. Nulla di sbagliato, penserete. Ma dobbiamo ricordarci che all’epoca, in Italia, il romanzo era considerato un genere di serie B, qualcosa di disadorno. Un po’ come adesso: l’arte ora viene considerata secondaria, non importante.
Non è una mossa dettata dall’impulsività, al contrario. D’Annunzio sa perfettamente a cosa sta andando incontro, cosciente del suo talento. Vedendo le vendite dei giornali aumentare se vi erano pubblicati i suoi racconti a puntate, ha saputo sfruttare l'occasione. Diventa quindi una sorta di imprenditore letterario. Sa cosa vuole il pubblico, e si serve delle sue doti per dare ai lettori ciò che desiderano. Così come il destino di molti artisti e geni moderni, ha suscitato più apprezzamenti all’estero che in casa propria. Hofmannsthal, Musil, Proust… sono solo alcuni dei tanti nomi che all’epoca esaltavano l’artista, ancora sottostimato in Italia.
“Il piacere” è un’opera del tutto nuova. In un paese che amava il Verismo e pubblicava Verga, D’Annunzio è una boccata di aria fresca. Entriamo nella psiche di Andrea Sperelli – protagonista del romanzo – e analizziamo il suo ambiente. Assaporiamo il bello, ascoltiamo echi vacui di un’aristocrazia ormai decadente. Eppure, non c’è malinconia, tristezza o inquietudine, neanche nella scena finale dove viene descritto il passaggio di una Roma nobile a una Roma popolare.
D’Annunzio scrive in terza persona, intervallando il punto di vista critico dell’autore e i pensieri del protagonista. Per la prima volta viviamo le sensazioni interne dei personaggi. È un romanzo che parla continuamente della dualità. Andrea risulta mutevole, vede la vita come un’illusione, avvicinandosi così alla menzogna. È questa la sua grande sconfitta: non capire il reale valore del tutto.
“Prepariamo nell’arte con sicura fede l’avvento del Superuomo.”
Abbiamo provato sulla nostra pelle come la gente risponde a chi pensa in grande. Noi siamo persone che amano circondarsi di chi si pone obiettivi alti, di chi è sognatore e di chi va oltre il tutto. Cerchiamo di non interagire con chi non ha ambizioni e non è – come erroneamente ci viene imputato – questione di superbia. È, per seguire il pensiero dannunziano, questione di chi non si ferma solo a ciò che è. È formare il carattere, per ampliare i propri orizzonti e vedere tutte le sfumature che prima ci erano sfuggite.
La vita non è solo miseria, povertà, annichilimento. Al contrario, la vita è un dono, è gioia, è opportunità. Va vissuta in ogni suo aspetto, va osservata senza sentirsi parte integrante. “Haberi non haberi”, sosteneva il grande artista: “possedere senza essere posseduti”. Solo una persona dedita all’arte, colta, intellettuale, può comprendere questo pensiero.
D’Annunzio ci insegna, quindi, a vivere ogni giorno da artisti. A dipingere, a scrivere, a musicare la nostra realtà, facendola diventare come vogliamo che sia. Ci insegna a creare e realizzare tutto ciò che abbiamo in mente. Ci insegna a guardare al di là dell’orizzonte.
Gabriele sarà pure sottovalutato come artista, ma vive nel nostro lessico quotidiano. Non dobbiamo dimenticarci che molte parole o espressioni sono state coniate da lui stesso: tramezzino, folla oceanica, velivolo, fusoliera, milite ignoto, scudetto... Nel 1917 il grande magazzino dei fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi andò a fuoco. Venne ricostruito e D’Annunzio lo rinominò per l’occasione: “La Rinascente”. Nome che è rimasto nella storia. Sapevate, inoltre, che fu lui a dare il nome Saiwa (acronimo di Società Accomandita Industria Wafer e Affini) alla nota azienda di biscotti? Non si fermò alla nascita di alcune parole, ma decise di cambiare genere alla parola “automobile”, ai tempi utilizzata per lo più al maschile.
Era sicuramente all’avanguardia per i suoi tempi, e molto probabilmente rimane un innovatore per l’epoca odierna. Gabriele va compreso, prima di poter essere criticato. Forse, però, appartiene a un decennio ancora lontano.
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