Questo è un racconto diviso in cinque parti. Si consiglia di recuperare le parti precedenti.
Simone aveva passato i giorni successivi a pensare ossessivamente a Kevin, ma non trovava neanche un accenno al senso di colpa. Si credeva il suo salvatore, colui che lo aveva liberato dalla morsa di una vita ingiusta che gli faceva sentire perennemente freddo, fame e sete.
La sofferenza di Kevin era scivolata via in una buia notte capitolina come se non fosse mai esistito. Nessuno aveva denunciato la sua scomparsa, nessun giornalista aveva iniziato a chiedersi che fine avesse fatto. Kevin aveva vissuto in un sussurro tra una moneta e l’altra, e nel sussurro gutturale aveva lasciato la vita, nell’indifferenza silenziosa di un pianeta che ha continuato a ruotare su se stesso, proprio come i nostri corpi continuano a muoversi quando una cellula muore.
Quando lo ebbero deposto sul lettino rivestito di lenzuola rosse e nere, Kevin era avvolto dal dolore e dalla sporcizia. Rebecca si era chinata su di lui in un movimento così materno che Simone fu colto come da una profezia, sarà così che metterà a dormire i nostri figli? Gli darà le stesse carezze, lo stesso bacio sulla fronte?
Poi Rebecca sbottonò i pochi bottoni rimasti ancora attaccati alla camicia consunta del figlio più miserabile di Roma, la aprì, lasciando intravedere un petto pieno di lividi e graffi. Delicatamente prese la spugna dalla bacinella e cominciò a lavarlo, impacciata proprio come una madre al primo bagnetto del primogenito.
L’alba dipinse il cielo di rosa, poi d’arancio e infine d’azzurro. Kevin era ora pulito, rasato, con l’aspetto che avrebbe dovuto avere se non avesse ceduto al bussare del male, aprendolo alla sua vita. Sarebbe potuto diventare il dirigente di una banca, o un insegnante precario ma con ancora l’entusiasmo di un ventenne, un buon marito, padre, o single incallito collezionista di francobolli e donne. Sarebbe potuto essere quello che voleva, o anche quello che non si era mai pensato e probabilmente ora la morte aveva spalancato le braccia ad altri universi, dove Kevin aveva preso decisioni diverse e continuava a vivere tra lacrime ma di sudore e risate.
La morte gli aveva dato infinite possibilità, quelle che la vita gli aveva sempre negato perché ormai era troppo tardi, perché è faticoso aggrapparsi a qualcuno o fare in modo che qualcuno si aggrappi a te.
Invece per Simone era stato così facile far scivolare la lama lungo la gola, si era sentito così leggero mentre il corpo si afflosciava pesante su di lui. Il fiatone come dopo una lunga corsa gli aveva fatto capire che aveva trattenuto anche lui il respiro, per empatizzare un minimo con Kevin, per comprendere un minimo cosa avesse provato. Poteva giurarlo, fu dopo qualche secondo che sul volto si dispiegò un sorriso, come se ci avesse messo tempo a capire, a realizzare che ora libero e che non era obbligato a rendersi prigioniero di quel corpo che gli chiedeva un’altra dose, e poi un’altra ancora, fino all’ultima, lo giuro, questa è l’ultima per sempre, o finché non mi dimentico che lo sia.
Vedere Kevin con dei vestiti fatti su misura, pulito, con i capelli senza un nodo, la barba tagliata e ben curata, gli occhi chiusi, le mani al cuore e il sorriso calmo aveva fatto stringere quella coppia, ora unita da un atto d’amore impagabile, il preludio di una dipendenza volta a liberare i santi dai loro demoni.
Ne vennero altri dopo Kevin, proprio come per ogni soccorritore ci sono altri dopo il primo a cui hanno salvato la vita e che rimarrà sempre impresso nella loro memoria.
Ma a tutto vi è una fine...
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