Attenzione: per i temi trattati si consiglia la lettura a un pubblico adulto e non impressionabile.
Questo è un racconto diviso in cinque parti. Per recuperare la prima, basta cliccare qui.
Pulito: liberato da quanto costituisce motivo di sporcizia o trascuratezza, per amore di igiene o decenza estetica.
Se dovesse attenersi a questa definizione, lui sarebbe la persona più pulita di questo mondo: alto un metro e ottantacinque, un fisico che testimonia le due ore quotidiane in palestra, moro, un’abbronzatura perennemente accennata perché ama trascorrere i weekend all’aperto, anche d’inverno. Capelli scuri e ancora folti, occhi tra l’azzurro e il verde, a seconda della luce, della stagione. Dal scintillio.
Pulito: esente da motivi o aspetti equivoci o di colpa in corrispondenza di un criterio di giudizio individuale o collettivo.
Sorride allo specchio, mentre si pulisce dai residui di spuma da barba e peli che non hanno mai fatto in tempo a ricrescere. Anche qui, lui è pulito: nessuno sa niente, nessuno sospetta niente e lui, lui non si è mai sentito in colpa.
L’empatia è un dono prezioso, soprattutto quando non sfocia nel sentimentalismo. Suo padre e mentore lo ha sempre educato a questa capacità, perché “Così non hai sorprese, saprai sempre cosa penseranno gli altri, se ti metti nei loro panni”. È il motivo per cui ha sempre avuto voti alti pur studiando il minimo e mai ricattando o rabbonendo i suoi professori: li studiava fino a capire cosa volevano da lui, se pretendevano impegno, allora si faceva vedere inizialmente goffo nelle loro materie, per poi migliorare piano piano; se lo volevano leader faceva il bastian contrario al loro volere e ancora, se lo volevano un soldatino, era tutto un sissignore.
Faceva così anche con i suoi amici e con ogni donna abbia mai avuto: fammi vedere come mi vuoi e mi comporterò in questo modo, solo per possederti. È da sempre la migliore tecnica di manipolazione mentale: far credere agli altri di essere sotto il loro controllo, così da renderli vulnerabili.
Ma Rebecca, oh, Rebecca lo spingeva fino ai suoi limiti. La prima volta che l’aveva accontentata lei non gli aveva chiesto nulla, se non esprimere ad alta voce un suo desiderio: avere un uomo che l’amasse al punto di uccidere per lei. Non glielo aveva detto esplicitamente, gli aveva solo confessato quanto la morte renda tutto più bello.
Il grande mistero della vita, quello a cui tutti siamo attratti al capezzale di un moribondo, mentre attendiamo la sua luce invisibile spegnersi per sempre. Cos’è che ci tiene in vita? Il respiro, il battito del cuore? Chi è che decide quando siamo destinati a scoprire, finalmente, cosa c’è quando il nostro corpo lascia andare tutta l’aria accumulata per un’intera vita e non vuole più riempirsene?
Già, la morte rende tutto più bello, più affascinante, più misterioso. Senza la morte non terremmo stretti a noi quei momenti di felicità, quando annusiamo un fiore, o mangiamo un piatto di pasta preparato da qualcuno che amiamo e che nessuno sa fare così buono. La morte innalza ogni vissuto, anche quello della persona più misera e meschina, ecco perché Simone è andato proprio da loro.
Diceva di chiamarsi Kevin, ma sapeva che non era vero. Lo aveva osservato a lungo, mentre si trascinava per la stazione Termini, chiedendo pochi spicci ai passanti ignari che poi li avrebbe utilizzati per l’ennesima dose.
Nascosto da cappellino, occhiali da sole, sciarpa e guanti neri, Simone si chiedeva quanto ancora rimanesse da vivere a un uomo alto poco più di un metro e settanta, con cinquanta chili a coprire le ossa infragilite dall’eroina.
Lo aveva seguito nel buio dei vicoli limitrofi di via Giolitti, arrancare tenendosi il braccio sinistro, fermarsi a riposare poggiandosi al portone chiuso di un palazzo che un tempo doveva essere stato signorile, ma che ora puzzava di urina e lamenti.
Gli aveva offerto aiuto, nella solitudine della notte. Gli aveva dato da bere, gli aveva dato quel briciolo di umanità che a Kevin mancava da sempre, così arreso alla bassezza di una società che ormai lo ignorava, lo confinava ai margini, come l’angolo di casa che non si riesce a spolverare e che allora si decide di coprire con una pianta o un mobile.
Gli aveva offerto un braccio, un sostegno, lo aveva caricato in macchina in una scena così misera che persino i lampeggianti blu della polizia non avevano potuto fare luce. Kevin aveva ringraziato bofonchiando, tossendo, forse volendo aggiungere altro, se Simone non gli avesse tagliato la gola mentre Rebecca guidava nel pieno centro di una Roma che non dorme mai, eppure sceglie di ignorare la miseria, confinandola nei peggiori degli incubi.
Kevin si era accasciato sul petto di Simone. Il tremendo puzzo acido di un corpo pieno di eroina, non lavato da anni aveva invaso l’abitacolo, Rebecca stringeva il volante emozionata, saettando lo sguardo tra lo specchietto e la strada, vedendo Simone tenere ancora abbracciato Kevin, come se questo fosse ora un bambino al sicuro. Una lacrima le scese sul volto, sapendo che quello era un abbraccio che forse Kevin aveva bramato per tutta la vita.
Questo è un racconto diviso in cinque parti. Per recuperare la prima, basta cliccare qui.
Pulito: liberato da quanto costituisce motivo di sporcizia o trascuratezza, per amore di igiene o decenza estetica.
Se dovesse attenersi a questa definizione, lui sarebbe la persona più pulita di questo mondo: alto un metro e ottantacinque, un fisico che testimonia le due ore quotidiane in palestra, moro, un’abbronzatura perennemente accennata perché ama trascorrere i weekend all’aperto, anche d’inverno. Capelli scuri e ancora folti, occhi tra l’azzurro e il verde, a seconda della luce, della stagione. Dal scintillio.
Pulito: esente da motivi o aspetti equivoci o di colpa in corrispondenza di un criterio di giudizio individuale o collettivo.
Sorride allo specchio, mentre si pulisce dai residui di spuma da barba e peli che non hanno mai fatto in tempo a ricrescere. Anche qui, lui è pulito: nessuno sa niente, nessuno sospetta niente e lui, lui non si è mai sentito in colpa.
L’empatia è un dono prezioso, soprattutto quando non sfocia nel sentimentalismo. Suo padre e mentore lo ha sempre educato a questa capacità, perché “Così non hai sorprese, saprai sempre cosa penseranno gli altri, se ti metti nei loro panni”. È il motivo per cui ha sempre avuto voti alti pur studiando il minimo e mai ricattando o rabbonendo i suoi professori: li studiava fino a capire cosa volevano da lui, se pretendevano impegno, allora si faceva vedere inizialmente goffo nelle loro materie, per poi migliorare piano piano; se lo volevano leader faceva il bastian contrario al loro volere e ancora, se lo volevano un soldatino, era tutto un sissignore.
Faceva così anche con i suoi amici e con ogni donna abbia mai avuto: fammi vedere come mi vuoi e mi comporterò in questo modo, solo per possederti. È da sempre la migliore tecnica di manipolazione mentale: far credere agli altri di essere sotto il loro controllo, così da renderli vulnerabili.
Ma Rebecca, oh, Rebecca lo spingeva fino ai suoi limiti. La prima volta che l’aveva accontentata lei non gli aveva chiesto nulla, se non esprimere ad alta voce un suo desiderio: avere un uomo che l’amasse al punto di uccidere per lei. Non glielo aveva detto esplicitamente, gli aveva solo confessato quanto la morte renda tutto più bello.
Il grande mistero della vita, quello a cui tutti siamo attratti al capezzale di un moribondo, mentre attendiamo la sua luce invisibile spegnersi per sempre. Cos’è che ci tiene in vita? Il respiro, il battito del cuore? Chi è che decide quando siamo destinati a scoprire, finalmente, cosa c’è quando il nostro corpo lascia andare tutta l’aria accumulata per un’intera vita e non vuole più riempirsene?
Già, la morte rende tutto più bello, più affascinante, più misterioso. Senza la morte non terremmo stretti a noi quei momenti di felicità, quando annusiamo un fiore, o mangiamo un piatto di pasta preparato da qualcuno che amiamo e che nessuno sa fare così buono. La morte innalza ogni vissuto, anche quello della persona più misera e meschina, ecco perché Simone è andato proprio da loro.
Diceva di chiamarsi Kevin, ma sapeva che non era vero. Lo aveva osservato a lungo, mentre si trascinava per la stazione Termini, chiedendo pochi spicci ai passanti ignari che poi li avrebbe utilizzati per l’ennesima dose.
Nascosto da cappellino, occhiali da sole, sciarpa e guanti neri, Simone si chiedeva quanto ancora rimanesse da vivere a un uomo alto poco più di un metro e settanta, con cinquanta chili a coprire le ossa infragilite dall’eroina.
Lo aveva seguito nel buio dei vicoli limitrofi di via Giolitti, arrancare tenendosi il braccio sinistro, fermarsi a riposare poggiandosi al portone chiuso di un palazzo che un tempo doveva essere stato signorile, ma che ora puzzava di urina e lamenti.
Gli aveva offerto aiuto, nella solitudine della notte. Gli aveva dato da bere, gli aveva dato quel briciolo di umanità che a Kevin mancava da sempre, così arreso alla bassezza di una società che ormai lo ignorava, lo confinava ai margini, come l’angolo di casa che non si riesce a spolverare e che allora si decide di coprire con una pianta o un mobile.
Gli aveva offerto un braccio, un sostegno, lo aveva caricato in macchina in una scena così misera che persino i lampeggianti blu della polizia non avevano potuto fare luce. Kevin aveva ringraziato bofonchiando, tossendo, forse volendo aggiungere altro, se Simone non gli avesse tagliato la gola mentre Rebecca guidava nel pieno centro di una Roma che non dorme mai, eppure sceglie di ignorare la miseria, confinandola nei peggiori degli incubi.
Kevin si era accasciato sul petto di Simone. Il tremendo puzzo acido di un corpo pieno di eroina, non lavato da anni aveva invaso l’abitacolo, Rebecca stringeva il volante emozionata, saettando lo sguardo tra lo specchietto e la strada, vedendo Simone tenere ancora abbracciato Kevin, come se questo fosse ora un bambino al sicuro. Una lacrima le scese sul volto, sapendo che quello era un abbraccio che forse Kevin aveva bramato per tutta la vita.
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