Qualche tempo fa, un professore mi informò dell’esistenza di un testo particolare: il tema era quello del videogioco, indagato attraverso le categorie dell’estetica filosofica. In sostanza, all’arte si può affiancare il medium videoludico perché, secondo l’autore, quest’ultimo permette di osservare meglio l’esperienza per risalire ai principi che la originano.
Purtroppo, non ricordo il titolo del libro, ma potete recuperare l’articolo “Estetica ed esperienza” per avere un inquadramento può chiaro dei pilastri di questo discorso.
Non avevo compreso a pieno il significato di quelle parole, non prima di un evento in particolare. Una notte stavo giocando a un videogioco (Dragon’s Dogma su PS4 per la precisione) e il mio personaggio si era ritrovato a dover attraversare dei cunicoli bui munito solo della flebile luce emanata dalla sua lanterna.
Lo spazio era confuso e ogni passo procedeva incerto verso l’ignoto. A un certo punto, ho scorto una luce spettrale e in quel momento la colonna sonora si è trasformata in un motivo agghiacciante e carico di angoscia. La luce era scomparsa, ma il motivo cresceva d'intensità. In quel momento si era materializzata davanti a me la figura della morte: un’entità sospesa a mezz’aria coperta da una coltre d’ombra che somigliava a un mantello nero. Portava con sé una falce e una lanterna.
Avevo incontrato altre volte nel gioco quella figura, ma le circostanze non erano così opprimenti. Sapevo che era capace di uccidere il mio personaggio assestando un solo colpo di falce, e sapevo che in quel momento non la potevo sconfiggere dato che aveva un’immensa quantità di punti salute e le mie armi la scalfivano a malapena. Mi sono sentito preda di un terrore forbito (sottolineo che Dragon’s Dogma non è un gioco horror), tanto che quando ho ripreso fiato in circostanze più tranquille, ho riflettuto su quella sensazione che mi era sembrata troppo chiara per scaturire semplicemente da un videogioco.
È stato in quel momento che ho compreso cosa intendesse quel filosofo.
Prima d’ora non avevo mai visto una rappresentazione allegorica della morte che fosse più potente di questa.
Mi sono venute in mente le teorie di Roger Fry esposte in “Un saggio di estetica”. Vi è una certa distanza tra la vita reale e quella immaginativa, in quest’ultima è possibile esperire chiaramente le emozioni senza che queste scatenino meccanismi dell’istinto di sopravvivenza.
Roger Fry parlava esplicitamente dell’arte, ma la stessa riflessione può essere fatta sul videogioco. D’altronde, Roger Fry ha citato anche il medium del cinema nel suo saggio, dunque possiamo analogamente trasferire gli stessi concetti al videogioco. Anzi, nel videogioco vi è una più profonda immedesimazione nel personaggio, ciò avviene senza che venga abbattuta quella vetrina che separa la vita reale dalla vita immaginativa.
A posteriori mi vengono in mente altre esperienze particolari che evocavano concetti più profondi nel mio animo: per esempio l’orrore dell’incubo in Bloodborne, con i suoi spazi tristemente tetri e gotici permeati di una bellezza decadente; oppure il sublime suscitato dai paesaggi onirici di Xenoblade Chronicles.
In un certo senso, la vita immaginativa non è scollegata dalla vita reale, anzi sono due elementi complementari. La vita immaginativa suscita sensazioni di realtà, proprio come in un sogno terribilmente realistico. Che il fine ultimo dell’immaginazione non sia forse comprendere meglio le strutture della realtà?
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