Le boyband hanno sempre fatto strappare i capelli alle ragazzine di tutti i tempi, dai primi anni Sessanta con i Beatles ai giorni nostri, arrivando fino al fenomeno del K-Pop. Nulla di nuovo, quindi.
Con i continui scandali legati al mondo dello spettacolo e con un impero musicale statunitense che sta crollando lentamente, però, mai mi sarei immaginata quello che c’era dietro le boyband dei primi del Duemila e che seguivo.
Backstreet Boys e Nsync. Io più team dei primi, con poster di Nick Carter e Kevin Richardson sparsi per la mia cameretta che guardavo sognante sperando di conoscerli prima o poi. Si dice di prestare attenzione a cosa si desidera, perché potrebbe avverarsi. Ecco, ora la me adulta ringrazia l’Universo per non aver ceduto alle richieste di una ragazzina.
Backstreet Boys e Nsync, dicevamo, boyband create da Lou Pearlman, imprenditore che ai tempi era considerato un vero e proprio genio, lungimirante in ogni suo lavoro. Ma il tempo lo ha rivelato per quello che realmente era: un truffatore.
Netflix, con il suo documentario “Dirty Pop – La truffa delle boy band” diviso in tre parti, ci racconta tutta la sua storia.
Lou Pearlman è originario del Queens e fa fortuna concedendo leasing di aerei privati ai nomi più influenti non solo in America, ma in tutto il mondo. Quando incontra i New Kids On The Block ne rimane affascinato e decide di dedicarsi anche lui al mondo della musica. Mette su una band di giovanissimi – i Backstreet Boys, of course – e in poco tempo questi passano dall’esibirsi nei licei a vendere 130 milioni di album, riempire stadi e palazzetti in tour internazionali.
Il successo continua a crescere se vi è rivalità, ma allo stesso tempo può finire per lo stesso motivo, così Lou decide di replicare la storia con gli Nsync, perché se ci deve essere competizione, che almeno provenga tutta da lui. Le cose vanno alla grande e Lou non si ferma, dà vita agli O-Town, LFO, Take 5, Natural, US5, Innosense e poi i solisti Aaron Carter, Jordan Knight…
Tutto ciò che tocca Lou diventa oro, e mette su agenzie di talent scout, crea talent show… eppure sono proprio i suoi pupilli che sentono molto odore di fumo e poco sapore di carne.
Con un successo così grande i Backstreet Boys cominciano a chiedersi come sia possibile che i loro guadagni si aggirino a poche migliaia di dollari. Si sono sempre recati in tour con aerei privati di lusso, Lou ha sempre organizzato grandi cene e grandi feste, eppure i conti bancari dei componenti faticavano a salire.
Le domande si fanno sempre più assillanti, e vengono poste anche dagli addetti ai lavori vicino a Pearlman, a loro dire ignari di tutto. Quello che verrà alla luce è lo schema Ponzi (modello di vendita truffaldino che promette guadagni per i primi investitori a discapito dei nuovi) più grande e duraturo nella storia Statunitense: sono trecento milioni di dollari, quelli dichiarati, i debiti lasciati dal manager che poi è stato condannato nel 2008 a venticinque anni di carcere per: riciclaggio di denaro sporco, cospirazione, false dichiarazioni e procedura fallimentare.
Degli anni di pena, però, ne ha scontati solo otto, perché Lou Pearlman è morto il 19 agosto 2016 a seguito di un ictus.
Non è tutto oro quello che luccica, insomma, è Netflix con questo documentario ce lo fa capire molto bene.
Con i continui scandali legati al mondo dello spettacolo e con un impero musicale statunitense che sta crollando lentamente, però, mai mi sarei immaginata quello che c’era dietro le boyband dei primi del Duemila e che seguivo.
Backstreet Boys e Nsync. Io più team dei primi, con poster di Nick Carter e Kevin Richardson sparsi per la mia cameretta che guardavo sognante sperando di conoscerli prima o poi. Si dice di prestare attenzione a cosa si desidera, perché potrebbe avverarsi. Ecco, ora la me adulta ringrazia l’Universo per non aver ceduto alle richieste di una ragazzina.
Backstreet Boys e Nsync, dicevamo, boyband create da Lou Pearlman, imprenditore che ai tempi era considerato un vero e proprio genio, lungimirante in ogni suo lavoro. Ma il tempo lo ha rivelato per quello che realmente era: un truffatore.
Netflix, con il suo documentario “Dirty Pop – La truffa delle boy band” diviso in tre parti, ci racconta tutta la sua storia.
Lou Pearlman è originario del Queens e fa fortuna concedendo leasing di aerei privati ai nomi più influenti non solo in America, ma in tutto il mondo. Quando incontra i New Kids On The Block ne rimane affascinato e decide di dedicarsi anche lui al mondo della musica. Mette su una band di giovanissimi – i Backstreet Boys, of course – e in poco tempo questi passano dall’esibirsi nei licei a vendere 130 milioni di album, riempire stadi e palazzetti in tour internazionali.
Il successo continua a crescere se vi è rivalità, ma allo stesso tempo può finire per lo stesso motivo, così Lou decide di replicare la storia con gli Nsync, perché se ci deve essere competizione, che almeno provenga tutta da lui. Le cose vanno alla grande e Lou non si ferma, dà vita agli O-Town, LFO, Take 5, Natural, US5, Innosense e poi i solisti Aaron Carter, Jordan Knight…
Tutto ciò che tocca Lou diventa oro, e mette su agenzie di talent scout, crea talent show… eppure sono proprio i suoi pupilli che sentono molto odore di fumo e poco sapore di carne.
Con un successo così grande i Backstreet Boys cominciano a chiedersi come sia possibile che i loro guadagni si aggirino a poche migliaia di dollari. Si sono sempre recati in tour con aerei privati di lusso, Lou ha sempre organizzato grandi cene e grandi feste, eppure i conti bancari dei componenti faticavano a salire.
Le domande si fanno sempre più assillanti, e vengono poste anche dagli addetti ai lavori vicino a Pearlman, a loro dire ignari di tutto. Quello che verrà alla luce è lo schema Ponzi (modello di vendita truffaldino che promette guadagni per i primi investitori a discapito dei nuovi) più grande e duraturo nella storia Statunitense: sono trecento milioni di dollari, quelli dichiarati, i debiti lasciati dal manager che poi è stato condannato nel 2008 a venticinque anni di carcere per: riciclaggio di denaro sporco, cospirazione, false dichiarazioni e procedura fallimentare.
Degli anni di pena, però, ne ha scontati solo otto, perché Lou Pearlman è morto il 19 agosto 2016 a seguito di un ictus.
Non è tutto oro quello che luccica, insomma, è Netflix con questo documentario ce lo fa capire molto bene.
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