Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.
Oggi analizziamo il sesto canto del Purgatorio. Cominciamo a scoprire sempre più su questo posto, impariamo a conoscere le sue nuove regole, eppure quando sembriamo averle capite, esse ci sorprendono.
Saranno tante le anime che incontreremo, ma una in particolare, quella di Sordello da Goito, sarà la vera protagonista del canto.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buono Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv’era l’Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buono Marzucco forte.
Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’e’ dicea, non per colpa commisa;
Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,
mentr’è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
La similitudine con cui inizia il canto va oggi giorno spiegata bene, perché se all’epoca il gioco della zara era abbastanza conosciuto, adesso è andato perduto, rimanendo solo la parola di uso più o meno quotidiano: azzardo.
E infatti era un vero e proprio gioco d’azzardo che veniva fatto quasi a ogni angolo della strada, dove due giocatori, lanciando i dadi, dovevano raggiungere una certa cifra. Era abitudine, per il vincitore, dare una sorta di mancia anche allo sconfitto, in modo tale che il peccato ludopatico fosse più o meno perdonato in fretta.
Così, allo stesso modo, Dante si rapporta con le anime che continuano ad avvicinarsi: continua a promettere loro di essere ricordato in Terra, mentre si libera dalla folla.
In effetti lo fa bene, perché ci fa i nomi di: Benincasa da Laterina (podestà di Siena, ucciso per vendetta), Ghin di Tacco (fratello del primo, e bandito molto conosciuto), probabilmente Guccio de’ Tarlati (morto caduto da cavallo mentre stava tentando di attraversare l’Arno per scappare ai guelfi), Federigo Novello (uno dei conti di Guidi, ucciso a Bibbiena nel 1289 o 1291), il figlio di messer Marzucco degli Scornigiani di Pisa (ucciso nel 1287), Orso degli Alberti della Cerbaia (figlio di Napoleone degli Alberti, con la loro vicenda già raccontata al canto XXXII dell’Inferno) e Pier da la Broccia (ciambellano e intimo consigliere del re francese Filippo III d’Ardito che, provocando l’invidia di corte, fu ingiustamente accusato, arrestato e poi impiccato per aver attentato alla castità della regina Maria di Brabante).
Per queste poche righe sappiamo così che Dante stesso ha dato giustizia e nuova luce a nomi, persone e fatti che all’epoca venivano pensati in negativo, possiamo solo immaginare quanto questo abbia significato ai tempi.
In più c’è da considerare l’enorme meraviglia della scelta stilistica di iniziare con la similitudine del gioco della zara, perché annuncia già l’anima che incontreremo e che sarà abbastanza importante per il canto, in quanto era accusata di esserne un giocatore assiduo.
Come libero fui da tutte quante
quell’ombre che pregar pur ch’altri prigehi,
sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.
Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Signore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai.
quell’ombre che pregar pur ch’altri prigehi,
sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: «El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.
Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Signore, andiamo a maggior fretta,
ché già non m’affatico come dianzi,
e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta».
«Noi anderem con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi.
Prima che sie là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ‘ suoi raggi tu romper non fai.
Dante si libera delle anime che “pregavano soltanto perché i vivi pregassero per loro” e chiede a Virgilio di risolvergli un dubbio.
Prima di proseguire, però, vorrei soffermarmi proprio sulla prima terzina: queste anime non sono ancora entrate nel Purgatorio, hanno quindi un po’ dell’indole infernale. Sostano, parlano e si muovono con Dante esclusivamente per raggiungere il prima possibile la Salvezza.
Certo, questo non è un male, ma certo fa notare che, anche se abbiamo visto tutti i nostri peccati, tutte le volte in cui cadiamo perché non abbiamo la Grazia a centrarci, continuiamo a comportarci da mercenari: io do qualcosa a te, se tu dai qualcosa a me.
Proseguendo Dante chiede a Virgilio: “Tesò, ma se tu nell’Eneide hai detto che le preghiere sono vane quando si tratta della volontà del cielo, perché questi continuano a richiederle? È una loro perdita di tempo, o so’ io che nun c’ho capito gnente?” e Virgilio risponde: “No, ma tranqui, ci mancherebbe. Qui le anime non perdono tempo, t’oo ricordi? Però io nell’Eneide mi riferivo alle anime pagane. So nato prima che la Grazia si rincarnasse sulla Terra, quindi prima ogni nostra preghiera era effettivamente disgiunta da Dio ”.
Anche se parafrasandola in romanesco, prestiamo attenzione all’umiltà dei due: Dante non accusa Virgilio di essersi sbagliato, né quest’ultimo lo umilia ricordandogli quello che alla fine è ovvio: l’epoca in cui ha vissuto. Aggiungendo umiltà a umiltà la Guida continua: “Però mo nun te sta a preoccupà de ‘ste domande troppo profonde, perché tutto ti sarà rivelato quando incontrerai Beatrice” e Dante, proprio come tutti noi di fronte alla possibilità di vedere crush, replica: “Ao, sbrigamose, su, annamo, salimo, famo, vedemo…” Virgilio, però, gli rivela una delle regole del Purgatorio: “Eh statte bbono, qui nun se po’ proseguì senza sole. Quindi potemo pure sbrigasse, ma tra un po’ farà buio e se dovemo comunque da fermà.”
Senza sole non si può proseguire per il Purgatorio, a differenza dell’Inferno, dove siamo andati avanti anche nel più completo buio. Ma che vuol dire?
Nel cammino di purificazione sono tante le cadute che ancora ci riportano a perdere la via, ma non sono più una colpa, perché quello che impariamo è rimanere fermi se non siamo ben allineati, se non abbiamo ben chiaro cosa fare.
Esempio: io sono una persona estremamente vendicativa, la mia indole è vendicarmi sempre e comunque, così appena mi sento ferita comincio a pensare a un ottimo piano per rendere il male con il male. Se, però, nel passato questo mio comportamento era giustificato dalla mia stessa persona, anzi, ci provavo gusto, lungo la strada della mia consapevolezza le azioni sono rimaste solo nel mio pensiero, fino a divenire, ora, scenari ironici che associo facilmente a una mentalità infantile.
Ma non si può arrivare a tutto ciò se ci si ostina a camminare come prima, a non farsi il classico esame di coscienza quotidiano, ad avere una Guida (Interiore o no) su cui contare per un sostegno, ad avere un minimo di autocritica nel prendersi cura del proprio interno.
La meditazione, l’autoanalisi, la terapia psicologica, o la preghiera possono essere certamente il nostro sole, senza questi aiuti è buio, ed è bene fermarsi.
Beatrice, si sa, è la Grazia e quando Dante la sente nominale, diventa indomito, vuole procedere, proprio come tutti noi. Tutti vorremmo vivere in uno stato di eterna Pace e Beatitudine, ma il cammino è lungo, non ci si può arrivare con la fretta proprio perché anche il rimanere fermi fa parte del processo.
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ‘nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ‘nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.
Miniatura medievale di Sordello da Goito |
Sordello nasce a Goito, vicino Mantova, attorno al 1200. Proveniente da una famiglia nobile, diventa giullare di corte talentuoso, con grandi doti di poeta e musico.
Dopo del tempo alla corte estense, si trasferisce a Verona, da Riccardo di San Bonifacio, dove si innamora – in maniera platonica – della moglie del conte: Cunizza da Romano, alla quale dedica molti dei suoi versi.
Trasferitosi poi al palazzo del conte Raimondo Berengario II di Provenza, inizia a collaborare come uomo politico con Romeo di Villanova ed è proprio in questo periodo che compone le sue opere più famose, come il Compianto in morte di ser Blacatz, barone alla stessa corte e anch’esso poeta. Nel poema, di genere planh (pianto) provenzale, esorta i principi del tempo a mangiare il cuore dello stesso Blacatz per prendere da lui il coraggio e l’intraprendenza di cui sono manchevoli.
Conoscendo anche per un minimo il carattere e la mentalità di Dante, ci viene facile capire il perché lo abbia così a cuore da avercelo presentato da subito come un’anima diversa dalle altre: è infatti solo e fermo, a differenza di quelle precedenti che intonano canti in coro, si muovono come in un gregge e sempre in movimento.
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lo magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa disgression che non ti tocca,
merché del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in somma de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ‘l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lo magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa disgression che non ti tocca,
merché del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in somma de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Chissà cosa penserebbe Dante nel constatare che nella politica italiana nulla è cambiato rispetto ai suoi tempi.
Siamo nel sesto canto del Purgatorio e, proprio come accaduto all’Inferno e come accadrà al Paradiso, è tempo dell’invettiva contro l’Italia e Dante non usa certo mezzi termini quando scrive: “Ahi serva Italia, di dolore ostello”.
Il Sommo Poeta è ammirato dalla velocità in cui Sordello si alza ad abbracciare Virgilio, solo perché della stessa città, quando nel mondo dei vivi le città, le casate, le famiglie stesse, si fanno la guerra per una sete di potere destinata a non acquietarsi mai.
Dante se la prende con l’Italia stessa, come fosse una persona, una nave senza pilota, piena di corruzione, lotte intestine e fratricide. Si chiede a cosa sia servito Giustiniano (che guarda caso troveremo nel VI canto del Paradiso), ideatore e fondatore del Corpus iuris civilis, l’insieme completo delle leggi che tuttora è uno dei fondamenti della scienza giuridica, se non c’è nessuno a guidare il Paese.
Se la prende con la Chiesa, che ostacola il potere temporale dell’imperatore in cambio di favori, e ancora se la prende con l’imperatore Alberto d’Asburgo, che ha rinunciato alle sue autorità sulle regioni italiane a favor di Germania e con tutte le famiglie che si scontrano l’una con l’altra. Non da meno, Dante si chiede se Dio abbia distolto lo sguardo dall’Italia per un bene ancora più grande, visto che ogni persona che sembra essere buona e valorosa, poi si rivela un vile traditore.
Non manca lo scontro anche contro Firenze, anche se in maniera sarcastica. Nota come i suoi cittadini cambino spesso fazioni, andando dove va il vento, prendendo cariche pubbliche senza però amministrare la città con giustizia e sapienza e la paragona a una donna gravemente malata che si gira e rigira nel letto in cerca di sollievo, inconsapevole che così facendo si sta solo procurando più dolore.
Quello che risalta agli occhi è che nel canto VI dell’Inferno, Ciacco si scaraventa contro la città, profetizzando anche a Dante il suo esilio. Ora è Dante stesso a dire la sua, mentre al canto VI del Paradiso vedremo che sarà lo stesso Giustiniano, qui citato, a dare il via all’invettiva.
Insomma, se prima erano solo allusioni, ora è ben chiaro: ogni canto delle diverse cantiche è collegato l’uno con l’altro.
Donna Tricolore, metafora dell'Italia opera di Carl Oesterley (1845) Ispirata alla Divina Commedia |
Il sei, infatti, è il numero dell’ambivalenza, dell’iniziatico per eccellenza che, in perenne equilibrio tra bene e male, luce e ombra, cerca la Verità ma allo stesso tempo si chiede il motivo di tutto quanto, soprattutto quando lo trova illogico.
Non a caso il sesto segno zodiacale è la Vergine, costellazione regina del cielo nel momento in cui percepiamo l’accorciarsi delle giornate, e torniamo a fare i conti con il buio, chiedendoci – nel più ancestrale dei modi – perché mai debba tornare l’oscurità.
Di come finirà l’invettiva parleremo il prossimo mese, intanto, però, una piccola curiosità. Qui Dante cita le lotte tra Montecchi e Cappelletti, nomi che ci risuonano famigliari, proprio perché hanno dato poi l’ispirazione a Shakespeare per Romeo e Giulietta.
La loro storia è stata raccontata per la prima volta ne Il Novellino di Masuccio Salernitano (opera postuma del 1476), per poi essere adattata da Luigi da Porto nella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, con la lor pietosa morte (1530). Ma la versione di Matteo Bandello (1554) è stata quella che, forse, ha fatto da base per la celebre tragedia dello scrittore inglese, scritta tra il 1594 e il 1595.
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