“L’altra figura, se può chiamarsi tale chi non ha figura in parte alcuna distinguibile per membra e per giunture, è una sostanza, se può dirsi tale ciò che un’ombra sembra, ma le diresti entrambe; si stagliava nera come notte, e fiera, con la forza di dieci furie e orrenda come l’inferno”.
(John Milton, “Il paradiso perduto”, terzo libro)
(John Milton, “Il paradiso perduto”, terzo libro)
È quasi sera, seduto su una panchina Ettore si chiede cosa lo abbia portato in un luogo così desolato.
Ragionando sulla risposta, Ettore inizia a sentir mancare l’aria. Un’esperienza sgradevole lo sta per pervadere. All’improvviso una voce, stridula e grave nello stesso tempo, squarcia l’udito:
“Una piccola ombra nella mente, una coltre immensa di fumo nero. Particelle di cenere minuscole ma pesanti, tosse.
Una figura lugubre, dalla geometria indescrivibile e dalle forme contorte piega la realtà e la fuliggine.
Agisce senza remore, dispiega una volontà inaccessibile e contraddittoria.
L’inconscio si manifesta, senza possibilità d’appellargli ragione, senza che ti chieda il permesso.
Un'ombra informe che ti controlla, un burattinaio che dirige le tue mosse.
In un certo senso, divieni vittima della tua stessa persona; ti ritrovi in situazioni di cui il perché e il nesso, come hai fatto a ridurti così?”
Un urlo strozzato di Ettore interrompe il monologo interiore. D’altronde, qual è il vantaggio di ottenere risposte che nessuno vuole sentire?
Un velo di tristezza lo assale, sa che è tutta colpa sua anche se non lo avrebbe voluto. Il mondo diviene grigio con il calar della sera, mentre Ettore resta lì, sconfortato, sotto la veglia di un cielo senza stelle.
“M’accoglie la piazza oramai vuota
mentre il resto della città muore,
nell’eco sorda d’ogni triste nota
sento il tramonto nel mio cuore”.
(Gianluca Boncaldo, Tramonto nel cuore)
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