È ciò che cerchiamo di fare il più possibile, proprio per conoscere le molteplici sfumature dell’essere umano, ed è un “esercizio” che abbiamo sviluppato fin da ragazzini. La prima volta che ci siamo imbattuti in “prima persona” negli anni della Seconda Guerra Mondiale, l’abbiamo fatto, un po’ come tutti, con Anna Frank e il suo diario. Eppure, per quanto la guerra ha riguardo anche l’Italia, ci siamo sentiti un po’ distanti, ecco perché abbiamo cominciato a domandare il più possibile ai nostri nonni, ai loro amici e persino ai vecchietti sconosciuti incontrati nei bar o ai parchi.
All’epoca non conoscevamo “Una bambina e basta” di Lia Levi, ma fortunatamente abbiamo recuperato.
Nel libro la Levi ripercorre la sua infanzia sotto un’Italia alleata della Germania. Anche se è stato scritto cinquant’anni dopo quello che ha vissuto, lo stile è proprio di una bambina, come se dentro di lei certe ferite non si fossero mai del tutto emarginate.
La piccola Lia vive a Torino con i genitori e le due sorelle più piccole. Assieme a loro c’è anche la donna di servizio e tata Maria. Lia è ebrea, ma questo sembra non essere un problema, finché i genitori le comunicano che non può più andare alla scuola pubblica. Poco importa, però, perché può frequentare quella ebraica e forse per lei è tanto meglio così.
Procede tutto nella norma, fino a quando il padre perde il lavoro e la famiglia è costretta a trasferirsi nella nebbiosa Milano. Questione di poco, però, perché un altro trasferimento porta la famiglia Levi a Roma.
Si trasferiscono nel nuovo quartiere di Monteverde e per Lia la vita nella Capitale non è poi tanto differente da quella nel Nord Italia, se non fosse che tutti a Roma sembrano tenere di più alla figura del Duce, almeno in apparenza.
Quando il Regime cade, la famiglia non fa in tempo a esultare, speranzosa di una libertà ritrovata, che subito la Germania occupante si rende minacciosa: gli ebrei cominciano a essere catturati per essere portati nessuno sa dove.
Lia, la madre e le sorelle trovano la salvezza in un convento-collegio alle porte di Roma, mentre il padre è costretto a rimanere nascosto in una locanda, in zona Piazza Fiume.
Anche se con visite sporadiche, i componenti riescono comunque a vedersi, così la vita di Lia cambia, sì, ma lo studio e la vicinanza con altre ragazzine – sia le collegiali che altre ebree – rendono il tutto più sopportabile.
Tra le mura e i giardini del convento, però, cresce la paura, soprattutto quando nella casa accanto si insediano dei soldati tedeschi.
Ciò che ci ha fatto ragionare è come la generazione di bambini e ragazzini che ha vissuto gli anni Trenta e Quaranta, in un modo o nell’altro, abbia dato poi origine alla rivoluzione sociale e culturale degli anni Sessanta e Settanta.
Crediamo che quando perdi tutto, quando non sai cosa ti riserva il futuro, quando ti chiedi se domani potrai mangiare, potrai scaldarti, potrai ancora stare con chi ami, si innesca dentro un meccanismo di sopravvivenza che è disposto a tutto pur di andare avanti. Si festeggia con gioia un uovo di pavone raccolto per strada e persino continuare con gli studi non è poi così male.
Quando torna la libertà, quando si ridiventa cittadini come gli altri, quando tutto è di nuovo alla portata di mano, allora è come se il cielo si rischiarasse e si sapesse esattamente cosa si vuole fare. Non si ha più paura di farcela, perché si è toccato con mano l’incertezza per quasi dieci anni, nulla spaventa più.
A volte ci sembra un passato lontano, ma tra noi e loro c’è solo una generazione di differenza. Così, ogni volta che ci sentiamo smarriti, confusi e abbiamo paura perché non sappiamo se riusciremo a farcela per altre ventiquattro ore, ricordiamoli, sapendo che la loro forza è ora la nostra.
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