venerdì 30 maggio 2025

#DivinaCommedia: Canto XV - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il quindicesimo canto del Purgatorio. Arriveremo alla III cornice, dove risiedono le anime degli iracondi. Incontreremo l’Angelo della misericordia, e grazie alla nostra Guida, riusciremo a trovare il giusto motivo per continuare il nostro cammino.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.  

Quanto tra l’ultimar de l’ora terza
e ‘l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,

tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.

E i raggi ne ferien per mezzo ‘l naso,
perché per noi girato era sì ‘l monte,
che già dritti andavamo inver’ l’occaso,

quand’io senti’ a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m’eran le cose non conte;

ond’io levai le mani inver’ la cima
de le mie ciglia, e fecimi ‘l solecchio,
che del soverchio visibile lima.

Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio

a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;

così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.

«Che è quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss’io, «e pare inver’ noi esser mosso?».

«Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch’om saglia.

Tosto sarà ch’a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».

Poi giunti fummo a l’angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».

Noi montavam, già partiti di linci,
e ‘Beati misericordes!’ fue
cantato retro, e ‘Godi tu che vinci!’.

Dante e Virgilio continuano il loro cammino e si ritrovano con il sole davanti agli occhi, e questo per loro è molto fastidioso, soprattutto quando la luce diventa più intensa, come quando il sole si riflette su una superficie e colpisce l’occhio umano. Quel tipo di luce, gli spiega poi la Guida, è di un angelo, un messaggero mandato affinché stimoli Dante a proseguire verso la scalata. Successivamente Virgilio lo tranquillizza: più andranno avanti nel cammino, più per Dante sarà facile abituarsi a quel bagliore.
L’angelo li invita a entrare presso una scala meno ripida e così fanno, ascoltando i canti “Beati i misericordiosi!” e “Godi tu che vinci”.

Dobbiamo ricordarci che anche se il cammino spirituale può sembrare difficoltoso – e infatti, soprattutto all’inizio lo è – più procediamo, più ci purifichiamo, più tutto sarà leggero, portandoci a camminare con più gioia e fiducia.

Lo mio maestro e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;

e dirizza’mi a lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».

Per ch’elli a me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s’ammiri
se ne riprende perché men si piagna.

Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri.

Ma se l’amor de la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;

ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».

«Io son d’esser contento più digiuno»,
diss’io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.

Com’esser puote ch’un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé, che se da pochi è posseduto?».

Ed elli a me: «Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’a lucido corpo raggio vene.

Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’essa l’etterno valore.

E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende.

E se la mia ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun’altra brama.

Procaccia pur che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».

Dante chiede spiegazioni a Virgilio per le parole pronunciate in precedenza da Guido del Duca, che ancora non ha compreso. Virgilio gli spiega che, mentre qui su la Terra tendiamo a desiderare i beni materiali senza volerli condividere con nessuno per assaporare quell’illusione di possesso, nel Cielo le cose funzionano in modo molto differente: più si ragiona sul “nostro”, più le persone posseggono il bene, e più le persone posseggono il bene, più si amplia la carità.

Quella spiegazione confonde ancora di più Dante che si chiede come sia possibile una cosa del genere, così Virgilio gli risponde che sta ancora ragionando con la logica terrena, invece con la grazia divina. Prova a spiegarsi meglio così: l’amore divino è infinito, non ha limiti come qualsiasi bene materiale, così si posa e si concede a tutti gli uomini che aprono il proprio cuore all’amore. E più lo aprono, più questo raggio di amore divino, entra in loro, generando ancora più amore divino verso gli altri, come se la persona diventasse uno specchio che lo riflette. Aggiunge, poi, che se ancora non ha capito il ragionamento, può sempre attendere di arrivare a Beatrice per comprenderlo.

Ma alla fin fine il ragionamento divino è piuttosto semplice, infatti Dante finalmente lo capisce: dato che i beni materiali hanno i loro limiti, per accaparrarsene nascono odi, inimicizie, insoddisfazioni, proprio perché nessuno può godere appieno di nulla.
I beni divini, essendo infiniti, sono sempre pronti ad arrivare alle persone che, più ne chiedono, più ne hanno.

Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’,
vidimi giunto in su l’altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.

Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;

e una donna, in su l’entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio
perché hai tu così verso noi fatto?

Ecco, dolenti, lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.

Indi m’apparve un’altra con quell’acque
giù per le gote che ‘l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,

e dir: «Se tu se’ sire de la villa
del cui nome ne’ dèi fu tanta lite,
e onde ogni scïenza disfavilla,

vendica te di quelle braccia ardite
ch’abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E ‘l segnor mi parea, benigno e mite,

risponder lei con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?».

Poi vidi genti accese in foco d’ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».

E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,

orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.

Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,

ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».

«O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
io ti dirò», diss’io, «ciò che m’apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».

Ed ei: «Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.

Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir lo core a l’acque de la pace
che da l’etterno fonte son diffuse.

Non dimandai ‘Che hai?’ per quel che face
chi guarda pur con l’occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».

Prima che possa dirsi soddisfatto, però, Dante si accorge che sono arrivati alla III Cornice, e viene colto da tre visioni: la prima è quella di Maria che ritrova il fanciullo Gesù nel Tempio, dopo tre giorni di ricerche; la seconda quella di Pisistrato, signore di Atene, che perdona un giovane colpevole di aver baciato sua figlia in pubblico; e l’ultima è la lapidazione di Santo Stefano da parte degli Ebrei, che vengono perdonati dal martire.

Quando torna in sé, Virgilio lo esorta a continuare il cammino, chiedendogli: “Cosa hai?” Dante risponde che se avesse visto anche lui, lo capirebbe, ma Virgilio, serio come solo un buon maestro sa essere, gli risponde che sa bene cosa ha visto, lo vede nei suoi pensieri: erano tutti esempi di mansuetudine, arrivati per ricordargli che deve aprire la sua anima a questo sentimento. Poi gli dice che non gli ha fatto quella domanda per sapere se c’era qualcosa che non andava, ma per incoraggiarlo a proseguire e non cedere alla pigrizia, grande nemica nel processo di purificazione.

Le tre visioni di Dante sono chiari esempi di ira rimossa per far largo alla mansuetudine: una madre che ritrova il figlio e decide di non sgridarlo o picchiarlo per non essere tornato con i genitori; un padre che non uccide, o punisce, un uomo che osa baciare pubblicamente sua figlia e infine un martire che decide di perdonare i suoi assassini.
È così che veniamo già a sapere che stiamo per entrare nella cornice che purifica il peccato dell’ira.

Noi andavam per lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.

Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.

Dante e Virgilio continuano a proseguire, anche se a fatica per via del sole sempre davanti ai loro occhi, ma quando entrano nella cornice, un denso fumo nero li circonda, impedendo loro di vedere e respirare aria pulita.
È per questo fumo che Dante ha avuto le visioni: da qui le anime non possono vedere e quindi riceveranno gli esempi di mansuetudine attraverso altri modi.

Al prossimo mese per cominciare a parlare con uno di loro…

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