venerdì 25 aprile 2025

#DivinaCommedia: Canto XIV – Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il quattordicesimo canto del Purgatorio. Stiamo ancora nella II cornice, quella degli invidiosi. Oggi parleremo con due di loro: Guido del Duca e Rinieri da Calboli, che invidiosi in vita, non perdono tempo con le loro invettive verso la società dei tempi, che poi non è così distante da quella odierna.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.  

«Chi è costui che ‘l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».

«Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo».

Così due spirti, l’uno a l’altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;

e disse l’uno: «O anima che fitta
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta

onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai».

E io: «Per mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.

Di sovr’esso rech’io questa persona:
dirvi ch’i’ sia, saria parlare indarno,
ché ‘l nome mio ancor molto non suona».

«Se ben lo ‘ntendimento tuo accarno
con lo ‘ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli d’Arno».

E l’altro disse lui: «Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com’om fa de l’orribili cose?».

E l’ombra che di ciò domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che ‘l nome di tal valle pèra;

ché dal principio suo, ov’è sì pregno
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro,
che ‘n pochi luoghi passa oltra quel segno,

infin là ‘ve si rende per ristoro
di quel che ‘l ciel de la marina asciuga,
ond’hanno i fiumi ciò che va con loro,

vertù così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:

ond’hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.

Tra brutti porci, più degni di galle
che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.

Botoli trova poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.

Vassi caggendo; e quant’ella più ‘ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.

Discesa poi per più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.

Né lascerò di dir perch’altri m’oda;
e buon sarà costui, s’ancor s’ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.

Io veggio tuo nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.

Vende la carne loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.

Sanguinoso esce de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva».

Due anime vedono Dante camminare lì vicino e, parlando tra loro, si chiedono chi mai sia questo vivo che può avventurarsi tranquillo per le strade del Purgatorio. Quando Dante è abbastanza vicino da poterli vedere, una di loro fa le solite domande: da dove viene e chi è.

Dante per umiltà – non era infatti molto conosciuto ai tempi, se non tra la cerchia di lettori delle poesie d’amore – risponde solo alla prima, e non alla seconda ma non fa direttamente i nomi, né di Firenze, né dell’Arno, del quale ne descrive il percorso, per far capire ai due di dov’è.
L’altra anima si chiede come mai Dante non abbia detto i nomi, e la prima anima che ha preso parola risponde: “Non lo so, ma meglio così…” e comincia tutta la sua invettiva contro gli abitanti della Toscana che paragona a degli animali via via sempre peggiori.
Dal Casentino, passando per Arezzo, Firenze e infine Pisa, l’anima descrive i loro abitanti in maniera brutali: brutti porci, botoli, – piccoli cani che abbaiano forte – lupi bramosi (ricordiamo la lupa come simbolo di avarizia) e infine volpi astute e fraudolente.

Proprio come nell’Inferno, il linguaggio è quasi scurrile e la descrizione dei toscani ricorda quelle delle bolge infernali che, più si segue il percorso dell’Arno, più si incontrano le anime peggiori.
L’anima continua il discorso dicendo a quella che le sta accanto che suo nipote – Fulciero da Calboli – eletto podestà nel 1303, metterà a morte i Bianchi e l’intera città cadrà sempre più nella selva del vizio e dell’abiezione tanto che potrà tornare ai suoi splendidi albori solo dopo circa mille anni.

Fa strano tornare a sentire parlare con così tanta crudezza, ma la verità è che stiamo ancora nel Purgatorio, e nel suo inizio, l’Inferno è più vicino di quanto pensiamo e qui le due anime, soprattutto la prima che parla, che poi vedremo chi essere, sono ancora passionali e attaccati alla materia.

Com’a l’annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch’ascolta,
da qual che parte il periglio l’assanni,

così vid’io l’altr’anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch’ebbe la parola a sé raccolta.

Lo dir de l’una e de l’altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;

per che lo spirto che di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo’ ch’io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.

Ma da che Dio in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch’io fui Guido del Duca.

Fu il sangue mio d’invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.

Di mia semente cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni ‘l core
là ‘v’è mestier di consorte divieto?

Questi è Rinier; questi è ‘l pregio e l’onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s’è reda poi del suo valore.

E non pur lo suo sangue è fatto brullo,
tra ‘l Po e ‘l monte e la marina e ‘l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;

ché dentro a questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.

Ov’è ‘l buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!

Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?

Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro con Guido da Prata,
Ugolin d’Azzo che vivette nosco,

Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l’una gente e l’altra è diretata),

le donne e ‘ cavalier, li affanni e li agi
che ne ‘nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.

O Bretinoro, ché non fuggi via,
poi che gita se n’è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?

Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s’impiglia.

Ben faranno i Pagan, da che ‘l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d’essi testimonio.

O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
è il nome tuo, da che più non s’aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.

Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m’ha nostra ragion la mente stretta».

L’altra anima, sentendo la sorte dei cittadini per mano del nipote, si rabbuia proprio come chi riceve la notizia peggiore del mondo. A quel punto Dante si fa desideroso di conoscere i loro nomi, e risponde ancora una volta la prima anima: Guido del Duca, di cui sappiamo davvero poco, praticamente quello che verrà poi a dirci.
Guido in vita era così invidioso che gli bastava vedere un
altra persona felice, da diventare livido di rabbia, così adesso raccoglie i frutti di quanto ha seminato. Anche lui chiede ai vivi come possono dare retta a un simile peccato, dopotutto a nessuno viene tolto niente se qualcun altro ha.
Poi presenta la seconda anima: Rinieri da Calboli, che secondo Guido è l’ultimo romagnolo degno di virtù perché dopo di lui la Romagna è diventata terra sterile di ogni moralità e integrità.
Così Guido cita tutti i personaggi romagnoli che hanno meritato di esserlo, chiedendosi dove siano finiti tutti i loro esempi. I loro discendenti sono così distanti da loro che sembrano essere illegittimi… così, ancora, osanna i signori di Bagnacavallo e Pagani (che abbiamo incontrato nel XXVII canto dell’Inferno – a non aver avuto più eredi.
Tutto questo discorso, però, fa male a Guido che chiede a Dante di allontanarsi da loro perché ora ha solo voglia di piangere.

Vorrei aggiungere che troviamo ancora lo schema duale presente dall’Inferno: due anime che in vita sono, o sarebbero state, nemiche e che adesso condividono la stessa pena, nello stesso luogo e vicine. Rinieri, infatti, era un guelfo mentre Guido era un ghibellino. Insomma, servono davvero a poco le differenze di pensiero che tanto ci sentiamo di voler proteggere qui sulla Terra.

Noi sapavam che quell’anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.

Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:

‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.

Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:

«Io sono Aglauro che divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci e non innanzi il passo.

Già era l’aura d’ogne parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu ‘l duro camo
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.

Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.

Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;

onde vi batte chi tutto discerne».

Dante e Virgilio riprendono il cammino, accompagnati, con lo sguardo, dalla fiducia infusa da tutte le anime lì presenti. Ma ecco, che arrivano altre voci a spaventare Dante: una che dice: “Mi ucciderà chiunque mi troverà”; e subito dopo un’altra: “Io sono Aglauro che fui trasformata in sasso”.


La prima appartiene a Caino e al suo famoso marchio portato dopo aver ucciso il fratello; la seconda alla versione del mito di Ovidio, dove Ermes, innamorato di Erse, scatena la gelosia della sorella Aglauro la quale fa di tutto per ostacolare i due amanti. Ermes, arrabbiato per tale presunzione e invidia, la trasforma in un sasso.

Dante, spaventato da queste voci, si avvicina a Virgilio che per tranquillizzarlo continua a dire quanto sia sciocco peccare di invidia: quanto sentito, infatti, sono le raccomandazioni che riceviamo noi esseri umani su questo peccato. Purtroppo, però, siamo molto attratti dai beni mondani tanto da abboccare sempre all’esca del demonio che ci cattura.
L’ultima parte è da parafrasare perché è di uno splendore unico: “Il cielo vi chiama e vi ruota intorno mostrandovi le sue eterne bellezze, e, malgrado ciò, il vostro sguardo si rivolge soltanto verso terra.” Non ho davvero niente da aggiungere.

Al prossimo mese, dove saliremo la scala che ci porterà alla III cornice, quella degli iracondi.

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