venerdì 27 giugno 2025

#DivinaCommedia: Canto XVI – Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il sedicesimo canto del Purgatorio. Entriamo a stretto contatto con le anime della III Cornice, quelle che in vita hanno peccato di ira. Incontreremo tra tutte Marco Lombardo che ci spiegherà l’importanza di una teoria molto importante anche per Dante: quella dei due soli.


Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.

Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.  

Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata,

non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,

che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.

Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che ‘l molesti, o forse ancida,

m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».

Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.

Pur ‘
Agnus Dei’ eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.

«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d’iracundia van solvendo il nodo».

«Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».

Così per una voce detto fue;
onde ‘l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».

E io: «O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».

«Io ti seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece».

Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia.

E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,

non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte».

«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.

Per montar sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».

Il buio che fa da padrone in quella cornice, per il fumo nero che impedisce la visione, è ancora più oscuro di quello dell’Inferno, così Dante si affida alla guida di Virgilio anche dal punto di vista fisico, appoggiandosi alla sua spalla, proprio come farebbe un cieco.

Non potendo vedere, il senso più acuto di Dante in questo momento è quello dell’udito, e infatti sente le anime intonare, in perfetto accordo, l’Agnus Dei. Virgilio gli spiega che sta ascoltando il canto di tutti coloro che in vita sono stati iracondi.
Sentendoli parlare, un’anima si intromette tra loro, chiedendo come mai uno dei due riesce a squarciare il fumo nero, sembrando così un vivo. Dante, al solito, conferma di essere in tale condinzione e risponde all’anima che potranno proseguire finché possono insieme, per poter così parlare. Proprio perché il fumo impedisce la visuale, potranno prestare molta attenzione l’uno all’altro.
Dante gli racconta tutta la sua storia, di come sia arrivato al Purgatorio e che è suo destino raggiungere la vetta del Paradiso. L’anima fa altrettanto, dichiarandosi un Lombardo di nome Marco che in vita era un massimo esperto di tutte le virtù materiali, che ora non hanno più alcun senso. Aggiunge infine la richiesta di pregare per lui quando arriverà al Cielo.

Sono tanti i simbolismi da spiegare. Il fumo nero rappresenta proprio l’ira, che ai tempi si pensava provocasse come dei vapori biliari in grado di ottenebrare l’intelligenza. Ecco che la scena della III Cornice rappresenta così la mente di una persona accecata – letteralmente – dall’ira, che mette il suo impulso primordiale al primo posto, lasciando per seconda lo stesso intelletto.
Il coro perfettamente concordo dell’Agnello di Dio – massima di umiltà, in quanto Gesù da figlio di Dio si è sacrificato per tutta l’umanità – è il contrappasso alla discordia che le anime hanno percorso in vita.
Quando poi Dante e Marco cominciano a parlare, lo fanno ascoltando per bene quello che si diranno proprio per insegnarci che se solo noi ascoltassimo davvero chi abbiamo di fronte, non cederemmo all’ira. Non dobbiamo per forza di cose essere d’accordo con tutti, ma un disaccordo non giustifica un’arrabbiatura, perché se ascoltassimo sul serio, capiremmo – pur non condividendole – le ragioni dell’altro.

Di Marco Lombardo sappiamo davvero poco, e le notizie giunte fino a noi sono incerte. C’è chi lo associa alla casata dei Lombardi di Venezia, chi invece pensa che avendo vissuto a lungo a Parigi, Lombardo sia semplicemente il soprannome datogli dai francesi. All’epoca, infatti, oltre le Alpi erano soliti riferirsi al termine lombardo per indicare un italiano. Altri ancora pensano che il termine derivi da un signore solito frequentare le corti dei signori lombardi.
All’epoca doveva essere comunque noto, perché è protagonista anche di un racconto del Novellino, nella Cronica del Villani come ospite di Ugolino della Gherardesca. L’unica fonte certa, quindi, è il periodo in cui questo Marco deve aver vissuto: nella metà del XIII secolo.

E io a lui: «Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.

Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.

Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;

ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».

Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.

Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.

Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ‘l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,

e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.

A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura.

Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.

Sentendo le parole di Marco, Dante ammette di avere un dubbio già da qualche tempo, che ora gli si è ingrandito nella mente: il mondo è completamente privo di virtù sane, buone, e pieno di malvagità. Ma perché? Qual è la causa reale? Degli astri o della volontà umana?

Ai tempi di Dante l’astrologia era considerata al pari di una scienza, quindi molti giustificavano le proprie azioni a seconda del posizionamento dei pianeti. Oggi la stessa domanda potrebbe suonare: “Il mondo è pieno di malvagità, ma di chi è la colpa? Di Dio che la permette, o di noi umani che la facciamo?

Marco sospira, facendo notare il suo dolore. Risponde che il mondo e i suoi viventi sono ciechi, perché ragionano con la logica terrestre, dando la colpa di un’azione all’esterno, in questo caso agli astri – o alla volontà di Dio – ma se così fosse, dove finirebbe il libero arbitrio? Ogni essere umano ha in sé la luce per distinguere il bene e il male – la mela mangiata da Adamo ed Eva – ed è per questo che si viene premiati se si fa il primo e puniti se si fa il secondo. Se non avessimo in noi la capacità di discernere tra i due, che fine farebbero l’Inferno e il Paradiso?
CoLui che ci ha creati, e che ci ha amati ancora prima di farlo, ci ha donati anche dell’intelligenza di capire da soli cos’è il bene e cos’è il male, lasciandoci del tutto liberi di agire. Quindi, se il mondo è pieno di male, la colpa è proprio di chi lo commette.

Prendiamoci del tempo per riflettere sulla questione, molto importante anche nei giorni nostri. Sono stata quasi vent’anni atea e posso dire senza problemi che l’ateismo, come suo significato, non esiste. Non è vero che la gente non crede in Dio, semplicemente non crede alla bontà di Dio. “Come posso credere in Dio quando vedo tutto questo male, tutto questo dolore?” e in effetti può essere una domanda lecita, ma perché incolpare Dio di questo dolore?
Quando Adamo ed Eva hanno mangiato la mela, hanno acquisito la capacità di discernere da sé, senza l’aiuto di Dio, cos’è bene e cos’è male. È vero che Dio li ha cacciati dall’Eden, ma è anche vero che non li ha mai abbandonati, così come non ha mai abbandonato la loro discendenza, fino ai nostri giorni. Oltre alla cacciata, però, Dio ha donato a tutti noi, suoi figli, il libero arbitrio e la libertà di scegliere se seguirlo, oppure no. Non è un Dio dittatore, perché altrimenti dove sarebbe la fede e la volontà di affidarsi?

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,

l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.

Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.

Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver che discernesse
de la vera cittade almen la torre.

Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;

per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.


Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.

L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;

però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.

Marco spiega meglio la situazione: l’anima appena creata da Dio è come una fanciulla che piange e ride, proprio come fa un bambino appena nato. È ingenua, ignara di tutto e si affida ai piaceri – perché il piacere materiale è pur sempre piacere – e lo rincorre in eterno, se non ha accanto una guida che sappia educarla.

Pensiamo proprio ai bambini: tutti loro vorrebbero giocare, arrampicarsi, mangiare dolci… e in effetti non ci sarebbe nulla di male in tutto ciò, ma che accadrebbe se questo diventasse la normalità per ogni bambino? Se passassero il loro tempo solo a giocare, senza mai studiare? Ad arrampicarsi senza controllo? O a mangiare dolci in modo incontrollato? Di certo non sarebbe più un bene… Così è l’anima: non c’è nulla di male nei piaceri della carne, nella materialità del mondo… tutti noi apprezziamo un buon gioiello, dell’ottimo cibo o del sesso, ma che accade se facciamo ruotare la nostra intera esistenza su tutto questo?

Ecco perché sono importanti le guide: una terrena e una divina.
Marco fa l’esempio di Roma, soprattutto quella di Augusto, e di come era perfetta nelle sue due guide materiali e spirituali che rappresentavano per Dante il modello di pace e giustizia universale.

Quando, però, il Papa ha voluto guidare il suo popolo ai beni materiali, approcciandosi alla Chiesa proprio come un Imperatore si approccia al suo territorio, questi due poteri hanno finito per creare il buio, temendosi per primi l’uno contro l’altro. E, come per tutto, basta vedere i frutti per accorgersi del seme che si è piantato.

In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;

or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.

Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:

Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma
francescamente, il semplice Lombardo.

Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango e sé brutta e la soma».

«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.

Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».

«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.

Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.

Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».

Così tornò, e più non volle udirmi.

In tutto ciò, però, ci sono piccole eccezioni nella regione della Lombardia e Marco fa i nomi di Corrado da Palazzo, Gherardo e Guido da Castello.

Dante comprende così il discorso, e capisce anche perché Dio alla tribù dei Leviti – che aveva scelto sulle altre undici per prestare servizio sacerdotale – aveva escluso il diritto di eredità dei beni materiali. Insomma: potere terreno e potere divino devono essere ben separati, perché solo così le due massime guide possono dare esempi di virtù morali e cambiare l’intera umanità.

Poi Dante, proseguendo, la luce dell’alba. Marco si volta di scatto, perché ancora non può vedere l’angelo del perdono pronto a cancellare il peccato dell’ira.

Diamo una breve spiegazione sui nomi fatti da Marco, breve perché anche qui sono poche le fonti rimaste sui tre.
Corrado da Palazzo appartiene a un’antica famiglia di Brescia, di parte guelfa. È stato vicario di Carlo d’Angiò a Firenze, nel 1276; poi podestà di Piacenza nel 1288.
Gherardo è figlio di Biaquino da Camino e India di Camposampiero. Nato nel 1240, cittadino di Padova, diventa capitano di Belluno e Feltre, poi capitano generale e signore di Treviso dal 1283 fino al 1306, anno della sua morte.
Di Guido da Castel sappiamo solo che nasce nel 1235 a Reggio Emilia, e muore nel 1315.
Le altre fonti, comuni ai tre, parlano di uomini cortesi, leali, ricchi di nobiltà d’animo. Dante stesso elogia il secondo, nonostante le diverse opinioni politiche, e il terzo nel Convivio,

Al prossimo mese, dove finiremo di vedere il peccato dell’ira e ci addentreremo in quello dell’accidia.

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