venerdì 28 giugno 2024

#DivinaCommedia: Canto IV - Purgatorio

Salita di Dante
illustrazione di
Gustave Doré
Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il quarto canto del Purgatorio. Ci troviamo ancora all’antipurgatorio, ma finalmente cominceremo la salita verso la Salvezza, con prima tappa il Balzo I, dove incontreremo i pigri per natura e i tardivi a pentirsi.


Comprenderemo come abbandonato l’Inferno il cammino non risulta da subito piacevole, anzi. Vedendo quanta strada c’è ancora da fare tendiamo a buttarci giù ma fortunatamente la speranza è lì a ricordarci che più saliremo, più ci alleggeriremo dal male. In più incontreremo l’anima di Belacqua, storico amico di Dante.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.

Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.

Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
l’anima bene ad essa si raccoglie,

par ch’a nulla potenza più intenda;
e questo è coontra quello error che crede
ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.

E però, quando s’ode cosa o vede
che tegna forte a sé l’anima volta,
vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede;

ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
e altra è quella c’ha l’anima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.

Di ciò ebb’io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era

lo sole, e io non m’era accorto, quando
venimmo ove quell’anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».

Maggiore aperta molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
l’uom de la villa quando l’uva imbruna,

che non era la calla onde salìne
lo duca mio, e ioo appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ‘n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;

dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.

Noi salavam per entro ‘l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.

Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss’io, «che via faremo?».

Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che n’appaia alcuna scorta saggia».

Lo sommo er’alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.

Io era lasso, quando cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com’io rimango sol, se non restai».

«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.

Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.

A seder ci ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond’eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.

Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n’eravam feriti.

Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.

Ond’elli a me: «Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,

tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l’Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.

Come ciò sia, se ‘l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare

sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,

vedrai come a costui convien che vada
da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
se lo ‘ntelletto tuo ben chiaro bada».

«Certo, maestro mio», diss’io, «unquanto
non vid’io chiaro sì com’io discerno
là dove mio ingegno parea manco,

che ‘l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun’arte,
e che sempre riman tra ‘l sole e ‘l verno,

per la ragion che di’, quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.

Ma se a te piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar: ché ‘l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».

Ed elli a me: «Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant’om più va su, e men fa male.

Però, quand’ella ti parrà soave
tanto, che su andar ti fia leggero
com’a seconda giù andar per nave,

allor sarai al fin d’esto sentiero;
quivi di riposar l’affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».


Dante e Virgilio con Belacqua,
miniatura del Codice Holkham,
Bodleian Library, Oxford -
WikiCommons
L’incontro con Manfredi ha reso Dante così attento da non fargli accorgere del tempo che è passato e qui il Poeta coglie l’occasione per una piccola “discussione” filosofica. Ai tempi, infatti, c’era chi dava ragione a Platone quando sosteneva che ogni essere umano aveva tre diverse anime: l’irascibile, la concupiscibile e la razionale; Dante è dalla parte di Aristotele, ripreso poi da San Tommaso d’Aquino, secondo cui l’anima è una, ma divisa in quelle tre parti che oggi possiamo chiamare “funzioni”.
Insomma: era così preso dal discorso da Manfredi da non accorgersi di altro. Se avesse avuto ragione Platone, una parte di lui si sarebbe dovuta accorgere del tempo trascorso e con questo ragionamento mette a tacere il famoso filosofo greco.

Camminando camminando, lui e Virgilio si trovano davanti il sentiero da prendere per salire lungo la montagna del Purgatorio e ad avvertirli di essere giunti a destinazione, sono proprio le anime incontrate prima. Dante chiede alla guida come faranno a riconoscere la strada giusta da prendere, e questa gli risponde che finché si sale, è sempre la strada giusta.
Così i due procedono, ma il vivo si sente sopraffare da quella stradina strettissima e che porta verso una salita di cui non riesce a vedere la fine. Anche se comincia a intraprenderla, rimane titubante, vorrebbe arrendersi, così Virgilio lo invita ad accomodarsi per un po’.

La strada stretta e tortuosa che il Poeta paragona al contadino che per difendere la propria vite riempie le già piccole fessure tra una vite e l’altra di filo spinato per non far desistere eventuali ladri, e ancora: le salite di San Leo, Noli, Bismantova e Cacume sono nulla in confronto, ci fa capire che il cammino per la Salvezza, sebbene auspicato da tutti, non è per tutti.
Fa paura, è scomodo, ci mette a disagio, non è insomma qualcosa di veramente allettante. Questo va tenuto ben in mente, perché capiterà a tutti (come è capitato a noi) sentire il bisogno di parlare a chiunque del cammino spirituale, ma la verità è che sono davvero in pochi quelli che ascolteranno sul serio.

Mentre sono seduti, Dante si stupisce nel vedere il Sole fare il giro contrario rispetto a quanto abituato, e qui Virgilio gli ricorda ancora che stanno al di sotto dell’Equatore, quindi il moto è diverso. Probabilmente questa è una spiegazione più per il popolo di allora, non pienamente a conoscenza delle nozioni astronomiche, o forse è la conferma di quanto detto prima: è ora di uscire dalla propria comfort zone e rendersi conto che è il momento di girare al contrario.

Nonostante tutta la spiegazione accurata di Virgilio, Dante non smette di pensare alla terribile salita e allora la Guida, con amore paterno, lo rincuora, svelandogli che è una strada fatta apposta che risulti più ripida all’inizio, ma man mano che si procede diventerà sempre più agevole, quasi non si accorgerà di star salendo per quanto sarà leggera.

Questo deve farci riflettere, perché se è vero che iniziare la propria purificazione è difficile, è altrettanto vero che una volta iniziati ad alleggerirci, a toglierci cioè i comportamenti nocivi e ad apprendere il giusto approccio alla vita, ogni ostacolo verrà sormontato quasi volando.

Personalmente mi sono ritrovata di fronte problemi enormi superati non sapendo neanche come, semplicemente si sono dissolti davanti a me. E proprio come Virgilio non sa dire di più di ciò, ma dice a Dante di vedere con i suoi occhi per capirlo, così io lo dico a voi: non è un vedere per credere, ma un credere per vedere.

E com’elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».

Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s’accorse.

Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
come l’uom per negghienza a star si pone.

E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo ‘l viso giù tra esse basso.

«O dolce segnor mio», diss’io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».

Allor si volse a noi e puose mente,
movendo ‘l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!».

Conobbi allor chi era, e quella angoscia
che m’avacciava un poco ancor la lena,
non m’impedì l’andare a lui; e poscia

ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come ‘l sole
da l’omero sinistro il carro mena?».

Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole

di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se’? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?».

Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a’ martìri
l’angel di Dio che siede in su la porta.

Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
per ch’io ‘ndugiai al fine i buoni sospiri,

se orazïone in prima non m’aita
che surga in sù di cuor che in grazia viva;
l’altra che val, che ‘n ciel non è udita?».

E già il poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è tocco
meridïan dal sole, e a la riva

cuopre la notte già col piè Morrocco».


Belacqua,
illustrazione di
Gustave Doré
Improvvisamente una voce canzona lo stesso Dante e tra il Poeta e l’anima nasce un divertente botta e risposta. La presa in giro ricorda quella di due cari amici e in effetti è proprio quello il rapporto che c’era tra Dante e Belacqua, l’anima che stiamo vedendo ora.

Di lui non sappiamo molto, probabilmente si chiamava Duccio di Bonavia, ed era un liutaio fiorentino, molto famoso per la sua indole pigra. Dante amava intrattenersi con lui perché dopotutto era sagace, divertente, anche quando lo prendeva in giro per il suo carattere apatico.
Queste voci possono trovare conferma nel canto, perché il battibecco scritto si rifà molto quanto detto. Dante gli chiede perché mai sta seduto all’ombra di grandi macigni assieme alle altre anime. Sta aspettando qualcuno, o ha ripreso le sue vecchie abitudini? Insomma, in questa domanda c’è un po’ l’ammonimento verso il suo amico, come per dire: “Hai perso così tanto tempo in vita, vuoi davvero continuare a farlo ora?
Furbo come pochi, Belacqua gli risponde che è inutile incamminarsi: lui e le altre anime sono esclusi dal Purgatorio per un tempo pari alla durata della loro vita. Neanche le preghiere possono aiutarli, perché Dio accoglie solo quelle di chi è in Grazia, quindi privo di peccato, non di certo loro. Così Belacqua e gli altri pigri rimangono fermi, non provando neanche ad abbassarsi un po’ della loro pena.

A questa risposta, così sciocca (con significato più vicino possibile alla sua etimologia “senza sale”, cioè “senza alcun valore”) Virgilio fa l’unica cosa giusta da fare di fronte a tale inettitudine: ignorare e procedere.
Allo stesso modo invita Dante a seguirlo, lasciando al proprio destino le altre anime.

Così finisce il canto, appuntamento al prossimo mese dove troveremo i morti di morte violenta.

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