venerdì 27 dicembre 2024

#DivinaCommedia: Canto X - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il decimo canto del Purgatorio. Finalmente incontriamo le anime penitenti che devono espiare il loro peccato, in questo caso i superbi. In più Dante ci farà una descrizione accurata della prima cornice senza tralasciare una piccola invettiva tutta dedicata a chi di noi ancora si fa comandare dalla superbia.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.

Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ‘l mal amor de l’anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,

sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòolti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?

Noi salavam per una pietra fessa,
che si moveva e d’una e d’altra parte,
sì come l’onda che fugge e s’appressa.

«Qui si conviene usare un poco d’arte»,
cominciò ‘l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».

E questo fece i nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,

che noi fossimo fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,

ïo stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.

Da la sua sponda, ove confina il vano,
al piè de l’alta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;

e quanto l’occhio mio potea trar d’ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.

Dante e Virgilio entrano e si lasciano alle spalle la porta che chiudendosi fa un gran rumore per il fatto che viene aperta raramente. Con determinato autocontrollo Dante non si volta, ricordando quanto detto poco prima dall’angelo guardiano.

Camminano attraverso una fenditura nella roccia molto ripida che gira tortuosamente a destra e sinistra. Data la difficoltà nel cammino, i due procedono lentamente, mettendoci più tempo del previsto.
Quando arrivano su di una strada più aperta, Dante è molto stanco e dato che neanche Virgilio sa come procedere, decidono di fermarsi per riposare. Ora il Poeta fiorentino può osservare attentamente il luogo e ce lo descrive come una lunga strada, sormontata da una parete alta tre volte la lunghezza del corpo umano.

Facciamo una piccola pausa, perché anche se questa descrizione è minima rispetto a quello che verrà, è bene soffermarsi sulla prima terzina molto più attuale di quanto si possa credere, qui la riporto già parafrasata: “Dopo che avemmo oltrepassato la porta che l’amore degli uomini rivolto al male lascia in disuso, perché fa sembrare retta la via errata,” già a inizi Trecento Dante si accorge di come l’uomo comune pensa di far del bene seguendo l’onda di una società sempre più volta verso il male. Cosa penserebbe di quella odierna, del continuo giudizio che rivolgiamo agli altri? Quante volte ci imbattiamo in video, post, commenti che giudicano la vita degli altri? Quante volte siamo noi stessi gli scrittori o gli ideatori di tutto ciò? E quante volte ci diciamo che lo facciamo a fin di bene? Per amore di giustizia e verità? Ne siamo davvero certi? E potrei continuare ancora: quante volte cadiamo nella misera trappola del consumismo? Quante volte ordiniamo vestiti di scarso valore su siti con sedi dall’altra parte del mondo, favorendo così inquinamento e sfruttamento minorile? Quante volte decidiamo di cambiare i nostri dispositivi tecnologici solo perché è uscito un nuovo modello più figo, più alla moda, senza pensare a quanto accade in Africa per far sì che quel nuovo modello possa arrivare nelle nostre già ricche case? Tutto ciò – e molto altro – è davvero agire per amore? Se pensate di sì, è bene aggiungere un’altra domanda: verso e per chi?

Non sarà di certo sfuggito, poi, la breve sosta voluta sia da Dante che da Viriglio. Se prima del cammino di purificazione era bene non fermarsi, ora la cosa più saggia da fare è farlo, soprattutto quando non sappiamo da che parte procedere. Fare il passo più lungo della gamba ora non fa bene a nessuno, e vedremo quanto Virgilio diverrà una guida sempre più incerta mano mano proseguiremo lungo il cammino.

La struttura del Purgatorio è un riflesso di quella dell’Inferno. Le strade più tortuose si trovano all’inizio e appartengono ai penitenti più lontani da Dio che per Dante sono proprio i superbi.

Là sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand’io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,

esser di marmo candido e addorno
d’intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.

L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,

dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.

Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla Dei’, prorpiamente
come figura in cera si suggella.

«Non tener pur ad un loco la mente»,
disse ‘l dolce maestro, che m’avea
da quella parte onde ‘l cuore ha la gente.

Per ch’i’ mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m’era colui che mi movea,

un’altra storia ne la roccia imposta;
per ch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso,
acciò che fossi a li occhi miei disposta.

Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ‘ buoi, traendo l’arca santa,
per che si teme officio non commesso.

Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
faceva dir l’uno ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’.

Similemente al fummo de li ‘ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso
e al sì e al no discordi fensi.

Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.

Di contra, effigïata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.

I’ mossi i piè del loco dov’io stava,
per avvisar da presso un’altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.

Quiv’era storïata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;

i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.

Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’essi in vista al vento si movieno.

La miserella intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro»;

ed elli a lei rispondere: «Or aspetta
tanto ch’i’ torni»; e quella: «.Segnor mio»,
come persona in cui dolor s’affretta,

«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov’io,
la ti farà»; ed ella: «L’altrui bene
a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?»;

ond’elli: «Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene».

Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.

Dante alza lo sguardo e si accorge che la parte della parete meno ripida è fatta di marmo bianco, candido, con dei bassorilievi tali che lo stesso Policleto – tra i massimi sculturi greci – a vederli si sarebbe vergognato dei suoi lavori.     
Questi bassorilievi, infatti, sono stati creati da Dio stesso e Dante li descrive come inconcepibili per la natura umana perché non sono solo belli a vedere, ma osservandoli anche per pochi secondi, essi prendano vita.

Delle tre scene descritte da Dante lui non è solo spettatore, ma le vive, assaporando gli odori, udendo i discorsi e prendendo parte al tutto, facendo entrare anche noi.

Le tre scene sono: l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria Vergine, re Davide svestito che danza davanti a tutta la folla lodando Dio davanti l’Arca dell’Alleanza e il gesto dell’imperatore Traiano (che vedremo in Paradiso) nei confronti di una vedova.
Se per le prime scene non c’è bisogno di ulteriori spiegazioni perché abbiamo più o meno tutti fatto l’ora di religione a scuola o catechismo, per la terza è bene soffermarci.
L’imperatore Traiano era in procinto di recarsi in Dacia e, impegnato nei preparativi per la guerra, incontra tra la moltitudine della folla accorsa a rendergli omaggio una donna disperata, già vedova. Questa gli chiede giustizia – essendo imperatore era anche giudice supremo – per suo figlio, appena assassinato. Traiano si ferma e la rassicura dicendole che appena tornerà dalla Dacia prenderà a cuore la causa ma la donna insiste, preoccupata che l’imperatore possa non tornare. A quel punto Traiano continua a tranquillizzarla, facendole notare che se dovesse accadere ci sarà sicuramente qualcun altro a farlo al suo posto. La donna continua, probabilmente perché vuole lui come giudice e Traiano l’accontenta, tardando così la sua partenza per la Dacia.


Questi sono tutti e tre episodi di estrema umiltà eseguiti da personaggi di grandissimo valore: Maria, solo una ragazzina scelta da Dio per diventare madre del Figlio incarnato, re Davide che si denuda davanti a tutti i suoi sudditi e un Imperatore romano.
Quello che incanta, oltre al fatto che le immagini sono vive e continuano a ripetersi in eterno, come se dessero vita stessa al tutto, è che se ci pensiamo bene è estremamente facile agire per umiltà, ma troppo spesso scegliamo di far andare il nostro orgoglio e continuare con la superbia. Perché?

Mentr’io mi dilettava di guardare
l’imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,

«Ecco di qua, ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne ‘nvïeranno a li alti gradi».

Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti
per veder novitadi ond’e’ son vaghi,
volgendosi ver’ lui non furon lenti.

Non vo’ però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che ‘l debito si paghi.

Non attender la forma del martìre:
pensa la succession; pensa ch’al peggio
oltre la gran sentenza non può ire.

Io cominciai: «Maestro, quel ch’io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».

Ed elli a me: «La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ‘ miei occhi pria n’ebber tencione.

Ma guarda fisso là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».

O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,

non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?

Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?

Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola tavolta una figura
si vede giunger le ginocchia al petto,

la qual fa del non ver vera rancura
nascere ‘n chi la vede; così fatti
vid’io color, quando puosi ben cura.

Vero è che più e meno eran contratti
secondo ch’avien più e meno a dosso;
e qual più pazïenza avea ne li atti,

Piangendo parea dicer: ‘Più non posso’.

Mentre Dante è intento a guardare tutte le figure, Virgilio gli mormora che stanno arrivando delle anime e che è bene seguirle, perché sicuramente queste procederanno verso la strada giusta. Dante si sbriga a volgere lo sguardo verso di loro, sia perché è sazio della bellezza appena vista, sia perché desideroso di continuare il cammino. Qui, però, ci esorta a pentirci fin da quando siamo in vita, anche se quello che vedremo insieme a lui può spaventarci. Poi ci incoraggia, ricordandoci che se dovessimo essere condannati a questa pena, proprio perché pentiti, non durerà più del tempo necessario.

I penitenti, infatti procedono con estrema lentezza perché portano su di sé un enorme masso che li costringe rannicchiati a terra, ed è per questo che Dante e Virgilio inizialmente stentano a riconoscere in loro delle anime. Come se il dolore per il grande masso sulla schiena non bastasse, si battono le mani al petto.

Il peso dei massi, però, non è uguale per tutt e chi ne ha più grande sembra dire piangendo: “Non ne posso più”, ma per conoscere meglio i superbi ci sono ancora altri due canti.
Vorrei soffermarmi sull’invettiva di Dante nei confronti di noi viventi che ancora procediamo nella superbia. Non ce le manda a dire, quando dice – andrò direttamente parafrando – : “O cristiani superbi, infelici e sventurati, che siete ottenebrati d’intelletto, avete fiducia nei passi indietro, non vi accorgete che siamo vermi nati per trasformare l’anima in un’angelica farfalla che vola verso la giustizia di Dio senza nessuna difesa?

Basta fare un piccolo lavoro interiore per capire che quando agiamo per orgoglio è perché abbiamo paura di essere feriti, ma da chi dovremmo sentirci così? Quanti di noi vivono la vita mandando avanti solo la mente logica? Domandina facile, come state? Come vi sentite davvero? Avete ansie, incertezze, angosce?
Dante ci ricorda che non stiamo su questo Pianeta per camminare ciecamente dove la mente vuole, ma per fare un lavoro all’interno di noi stessi ed elevarci come farfalle senza nessun bozzolo di difesa. Lo dobbiamo spaccare, rompere, prendere coraggio per divenire liberi proprio come fa il verme quando poi si tramuta in farfalla.


Se tutto questo fa ancora paura, forse è meglio ricominciare dal primo canto dell’Inferno.

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