venerdì 13 dicembre 2024

#Racconti: Il peso di sentirsi amati - Quarta Parte

Quando conobbi Silvio lottai a lungo con me stessa: non provavo nulla per lui, eppure ci uscivo solo per non rimanere sola. Mi infastidivano le sue attenzioni, i gesti premurosi, i regali nascosti nel portaoggetti della macchina, i bigliettini che mi metteva in borsa quando non guardavo e ciò che mi dava più fastidio era che sembrava non accorgersi che per me era solo un passatempo, una distrazione che riusciva a scandire i ritmi della settimana: ci vedevamo il venerdì sera, dormivamo insieme, sabato e domenica in gita fuori porta o ad ammirare le bellezze di Roma che anche per due romani doc non finiscono mai di stupire. Poi al tramonto prima del lunedì ci salutavamo e le nostre chiacchierate venivano interrotte, salvo qualche messaggino o chiamata prima di andare a dormire.


Il mio sentimento nei suoi confronti è cambiato quella volta in cui decise di lasciarmi. “Sento che non provi le stesse cose per me”. Mi colpì come una frustata. I suoi occhi non facevano trasparire il vittimismo che mi aspettavo, la sua voce non era stata tradita da toni o singhiozzi: era consapevole, una decisione presa probabilmente dopo qualche settimana di liste dei pro e dei contro e confermata dal mio “Ok” appena accennato.

Mi riportò a casa e non ci parlammo per un mese.

Fu durante il classico scambio degli scatoloni con la roba dell’uno e dell’altra che attendevano di tornare a casa, avvenuto in un pomeriggio, nella strada più affollata del quartiere perché non si sa mai  che scoppiai in un pianto improvviso, incompreso persino a me stessa. Mi scusai ancora, più con me che con lui, non sapevo cosa mi stava prendendo e la vergogna aumentava a ogni sconosciuto che rallentava per accettarsi che andava tutto bene. Lui non capiva ma come al solito riuscì a dire quello che avrei voluto ascoltare: il silenzio. Mi abbracciò e mi tenne stretta, poi quando mi calmai mi offrì una cioccolata calda e decidemmo che era giunto il momento di andare a convivere insieme.

Ancora oggi non so cosa mi prese, a volte mi domando per quale motivo ho accettato: paura della solitudine? Amare sentirmi amata? Sicurezza di una persona accanto? O forse per tutte queste cose che insieme danno effettivamente l’amore. La realtà è che mi ero accorta solo quando non c’era più di quanto io aspettassi i suoi messaggi, le sue chiamate, di come amassi ridere insieme a lui, addormentarmi tra le sue braccia e tornarvici una volta sveglia.

Fu alla terza settimana di convivenza che chiamai la mia gemella per cercare di capire se provasse le stesse cose per Edward e cercare di perdonarla. Dopotutto la sua scelta mi aveva portata a Roma a incontrare Silvio, a prendere una casa e passare le serate a decidere quale quadro sarebbe stato meglio in salotto e quale piantina decorativa mettere in bagno.
La chiacchierata con lei mi aveva lasciato il classico sapore dolceamaro che non ci si sa spiegare sul momento ma che a distanza di anni acquisisce il significato e ti fa dire: “Ma perché cavolo non l’ho visto prima? Era lì, palese.”

L’avevo vista felice, felice davvero. Mi raccontava del suo lavoro, dei progetti che potevamo continuare a fare insieme, che dopotutto Roma e Londra non sono così distanti, che Edward aveva anche una casa in Spagna e potevamo vederci lì, che le mancava Roma, e come stavano tutti, che tentava di mangiare sano e che fortunatamente nel quartiere c’erano molti supermercati e ristoranti attrezzati nel farle mantenere l’obiettivo. Fu una chiamata che durò il tempo necessario per dire tutto questo, con dei saluti sbrigativi quanto appassionati, e ancora mi chiedo perché non me ne sono accorta…

Nessun commento:

Posta un commento