Credo che “lost in translation” (letteralmente “perso nella traduzione”) sia una frase che racchiude perfettamente quante cose ci perdiamo nella traduzione. La cosa che, però, molto spesso non mettiamo in conto è che la comunicazione sia un continuo atto di traduzione. Noi traduciamo gli altri costantemente. Basta trovarci faccia a faccia con qualcuno per iniziare questo processo e, spoiler, commettiamo errori. Traduciamo l’altro secondo quelli che sono i nostri filtri, capiamo quello che vogliamo capire e riportiamo all’altro solo quello che abbiamo capito. È come se costantemente giocassimo al telefono senza fili e di orecchio in orecchio riportassimo bisbigli e sussurri forvianti.
L’atto della comunicazione è un atto di traduzione. La traduzione in quanto tale, proprio per etimologia del termine, ci porta a tradire l’altro. Tradiamo persino noi stessi, perché sfido chiunque ad ammettere di esser stato in grado di dire esattamente ciò che pensa nel modo in cui lo ha pensato. Ciò avviene, il più delle volte, perché concepiamo il modo secondo una serie di codici (o almeno questa è la spiegazione che mi sono data).
Impariamo a parlare associando un termine a un significato. Non è necessario fare una lezione di linguistica per capire che un oggetto ha quel nome per distinguerlo dagli altri. Siamo abituati, quindi, a guardare ciò che ci circonda secondo una serie di nomi, di parole, di verbi. Diamo, ostinatamente, un significato secondo delle etichette e in base a quelle raccontiamo ciò che vediamo. Ma se iniziassimo a ripensare a ciò che abbiamo sotto gli occhi come non reale? Se iniziassimo a capire che tutte le etichette che diamo in realtà non sono reali? Diamo persino fisicità ai sentimenti secondo delle etichette che noi assumiamo per abitudine. Resta pur sempre vero che abbiamo la necessità di codificare in un tentativo univoco la materia così come l’immateriale, ma se ci sbagliassimo?
Diamo delle etichette alle cose esattamente come la diamo ai nostri sentimenti. Impariamo cos’è l’amore leggendolo tra le righe di un libro, guardandolo recitato in un film, oppure attraverso le maschere delle persone che abbiamo davanti a noi. Sminuiamo, così, costantemente ciò che l’altro può o meno provare perché siamo abituati a tradire l’altro proprio nel momento in cui ci viene raccontato un qualcosa. Se domani dicessi di amare qualcuno, per chi mi sta a sentire non importa cosa realmente io stia provando, ma conta solo come questa cosa possa essere una volta che le parole hanno raggiunto le sue orecchie.
Dov’è, in tutto ciò, la reale comprensione dell’altro?
Beh… non esiste.
Pur volendo cercare di rendere tutti i sentimenti uguali, conformi e uniformi, in realtà falliamo. Ma è facile raggiungere questo fallimento, siamo umani. Falliamo perché se l’altro non prova un sentimento che si confà a ciò che abbiamo provato fino a quel momento noi, automaticamente, questo viene minimizzato o esasperato (no, non ci sono mezze misure). Vediamo, quindi, persino i sentimenti dell’altro secondo quelle che sono le nostre stesse lenti e per tale ragione siamo spinti a giudicare quello che l’altro sta provando. Finiamo così col tradire chi abbiamo davanti.
Quello che provo io non è uguale a quello che prova un’altra persona per il semplice fatto che in questo corpo fatto di materia ci vivo io. Quello che ha importanza per me non è detto che debba averla per l’altro. Ed è da qui che nascono le aspettative.
Ci ostiniamo a conformare tutto, persino l’amore.
Ci ostiniamo a dire cosa sia o non sia, quando in realtà è, punto e basta.
Ci ostiniamo a voler capire l’altro quando, in verità, non stiamo facendo altro che proiettare su quell’altro noi stessi.
Il mettersi nelle scarpe dell’altro non funziona, non esiste. Nessuno agirebbe mai come sta agendo l’altro, perché le mie azioni e i miei pensieri sono in ogni caso diversi da quelli che sta compiendo la persona davanti a noi.
Resta ovvio che continueremo ad aver bisogno di etichette, di comunicazione e a usare i nostri filtri, ma forse rendendoci conto che stiamo leggendo l’altro secondo le nostre condizioni, potrebbe spingerci a tradire un po’ di meno.
Continueremo a pensare di sapere cosa sia l’amore, semplicemente perché lo abbiamo provato sulla nostra pelle e, purtroppo, ci ritroveremo ancora una volta a dire: “Quando lo proverai anche tu”, senza neanche renderci conto che si amano persone diverse in modo diverso.
Continueremo a non capire la differenza tra gelosia e invidia, continueremo a chiamare delle sensazioni con etichette che non vi appartengono solo perché ci è stato detto che si chiama così quel sentirci in un dato modo.
Continueremo ad apprendere dall’altro, senza renderci conto del fatto che stiamo apprendendo una parte di noi stessi e non di chi abbiamo di fronte.
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