“Una sera camminavo lungo un viottolo in collina nei pressi di Kristiania con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava, si era immerso fiammeggiando sotto l'orizzonte. Sembrava una spada infuocata di sangue che tagliava la volta celeste. Il cielo era di sangue, sezionato in strisce di fuoco, le pareti rocciose infondevano un blu profondo al fiordo, scolorandolo in azzurro freddo, giallo e rosso. Esplodeva il rosso sanguinante lungo il sentiero e il corrimano, mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente, ho avvertito un grande urlo ho udito, realmente, un grande urlo, i colori della natura mandavano in pezzi le sue linee, le linee e i colori risuonavano vibrando. Queste oscillazioni della vita non solo costringevano i miei occhi a oscillare ma imprimevano altrettante oscillazioni alle orecchie, perché io realmente ho udito quell'urlo.”
Così descrisse la genesi della sua opera il pittore norvegese Edvard Munch (1863 – 1944). Una sensazione di malessere, di paura e dolore pervade “L’urlo”, uno dei quadri più famosi al mondo. Un sentimento che squarcia l’uomo, incapace di reagire, deformato dal suo stesso malessere interiore. Nell’articolo di oggi proviamo a spiegare questo capolavoro che, secondo noi, è più attuale che mai.
Munch dipinse la sua opera più famosa alla fine dell'Ottocento, ma non si tratta di un singolo, quanto di una serie di rappresentazioni. La prima versione è quella conservata al Museo Munch di Oslo, ed è un pastello su cartone, come la seconda (del 1895) che appartiene a un collezionista privato. La terza versione, quella più conosciuta al mondo, è del 1910, una tempera sul pannello a oggi presente nel museo norvegese a lui dedicato.
Ne “L’urlo” ci troviamo di fronte a un corpo deforme. Pare privato dello scheletro, di capelli o di qualsiasi cosa che possa avvicinarlo alla forma umana. Gli occhi sono privi di orbite, sono cavità appena accennate, mentre la bocca si esprime in un dolore sordo, agghiacciante, che arriva a deformare il corpo e il paesaggio circostante. I lineamenti sono scavati, scarni, tanto da rendere impossibile capire se si tratti di un uomo o di una donna. Il volto è rappresentato come un cranio, mentre il busto non ha una linea retta, ma segue l’ondulazione del tutto. Le mani sono appoggiate ai lati del viso, a coprire le orecchie da quello che sembra un grido talmente terribile che non deve essere udito. In lontananza, sullo stesso pontine dove si trova il protagonista del quadro, si scorgono due uomini che, invece, non sembrano percepire in alcun modo quel grido sordo. I loro corpi sono normali, non sono deformati, così come normali ci appaiono i pescatori e le loro imbarcazioni in lontananza. Lo spettatore percepisce quel dolore, lo vede cambiare il paesaggio (la cui tecnica sembra ricordare quella di Van Gogh), mentre il resto rimane immutato. Il cielo ci appare rosso sangue, un tramonto che sembra accompagnare lo straziante urlo.
Nel suo crudo stile pittorico, il personaggio rappresentato dovrebbe essere proprio Munch stesso, che ha cercato di riprodurre su tela il suo malessere esistenziale. L’artista esprime un dolore profondo, terribile, che distrugge l’essere umano, che perde ogni connotato tipico nel momento di una sofferenza così atroce. Verso la fine del XIX secolo, Munch e altri artisti cominciavano a percepire un cambiamento radicale nella storia d’Europa, un malessere che andava diffondendosi che poi avrà al suo compimento la Prima Guerra Mondiale. Si trattava di un pessimismo di fine secolo, dai francesi denominato “fin de siècle”. Quell’uomo rappresenta l’umanità, vittima di un cambiamento che non riesce a tenere il passo.
Il grido è un istinto naturale, un impulso incontrollabile, tra dolore e paura. Ma il mondo esterno non sembra percepire questo malessere esistenziale, perché è presente nel soggetto del quadro. Nessuno lo sta tormentando, nessuno lo sta pressando, eppure urla e soffre. Il suo grido rimane muto, però, quindi oltre alla sofferenza, questo dipinto rappresenta anche l’incomunicabilità. Il mondo intorno a lui diventa irreale, con striature del cielo che ricordano il sangue e i paesaggi che sembrano collassare, perché quello che il soggetto percepisce, viene filtrato da uno stato emotivo instabile, incontrollato, che porta alla percezione di una realtà completamente distorta, sfigurata.
I due uomini sullo sfondo, sordi al grido interno del soggetto del quadro, non condividono lo stesso dolore, anzi, sono distanti, il che accentua il senso di solitudine all’interno dell’opera. Si tratta di un punto di rottura, come se il mondo di Munch cadesse a pezzi. L’ansia che emerge si abbatte contro le difese psicologiche del soggetto, abbattendole. Ed ecco che subentra la paura di morire, di impazzire, che pensieri catastrofici e distruttivi comincino a far capolino come un’onda gigantesca impossibile da contenere. Si entra in un circolo vizioso. L’opera sembra un tentativo di esorcizzare certi crolli emotivi che Munch stesso ebbe. La sua vita fu davvero travagliata, costellata di lutti: sua madre morì di tubercolosi, come sua sorella maggiore a cui lui era particolarmente legato, quando lui aveva appena cinque anni; suo padre iniziò col tempo a diventare malinconico, sfociando in una sindrome maniaco-depressiva. Della sua sofferenza disse infatti:
“Io avverto un profondo senso di malessere che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo dipingere…”
Della travagliata vita di Munch ne abbiamo già parlato, speriamo che questo non vi abbia buttato giù abbastanza. Piccolo fun-fact: l'emoji dell'urlo è ispirata proprio a questo dipinto. E voi conoscevate già il significato di questo capolavoro?
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