Credo che “lost in translation” (letteralmente “perso nella traduzione”) sia una frase che racchiude perfettamente quante cose ci perdiamo nella traduzione. La cosa che, però, molto spesso non mettiamo in conto è che la comunicazione sia un continuo atto di traduzione. Noi traduciamo gli altri costantemente. Basta trovarci faccia a faccia con qualcuno per iniziare questo processo e, spoiler, commettiamo errori. Traduciamo l’altro secondo quelli che sono i nostri filtri, capiamo quello che vogliamo capire e riportiamo all’altro solo quello che abbiamo capito. È come se costantemente giocassimo al telefono senza fili e di orecchio in orecchio riportassimo bisbigli e sussurri forvianti.
L’atto della comunicazione è un atto di traduzione. La traduzione in quanto tale, proprio per etimologia del termine, ci porta a tradire l’altro. Tradiamo persino noi stessi, perché sfido chiunque ad ammettere di esser stato in grado di dire esattamente ciò che pensa nel modo in cui lo ha pensato. Ciò avviene, il più delle volte, perché concepiamo il modo secondo una serie di codici (o almeno questa è la spiegazione che mi sono data).