Quanti, nonostante i social e i diversi modi di interagire, si sono sentiti soli e abbandonati? Durante il lockdown una mia vicina, per avere un po’ di contatto umano, non si vergognava a suonare e a cantare con il quartiere dal suo balcone. A volte basta davvero poco per sentirsi parte del tutto, altre, invece, è proprio la presenza di qualcuno a salvarci.
“Tre camere a Manhattan” racconta la storia di un uomo e una donna (François e Catherine) che, conosciutisi in un bar, cominciano a camminare per le vie della città. Entrambi con un passato doloroso alle spalle, cercano di darsi conforto. Le tre camere citate nel titolo sono i posti in cui entrambi scoprono un pezzetto del passato l’uno dell’altro. La prima, una camera d’albergo, fa sì che l’uomo, Frank, si scopra geloso del passato travagliato della donna, mentre lei, Kay, è intenerita dalla solitudine dell’uomo. La seconda stanza è a casa di François, in cui la donna scopre il passato d’attore dell’uomo e il dolore provato dal medesimo dalla separazione con la moglie. La terza camera è quella di Kay, dove si conosce meglio la sua storia e i due capiscono di essersi innamorati sul serio.
Detta così, la storia non sembra molto attraente, in grado di catturare davvero l’attenzione. Ebbene, qui interviene il genio di Simenon: ciò che lega François e Kay è la solitudine, il sentirsi estranei da tutto, eppure il dolore è descritto in maniera così magistrale da sentire addosso quel senso di vuoto.
Ci si sente spettatori del loro dolore, del macigno che si portano dietro. La gelosia di Frank non è altro che il frutto della solitudine che ha patito. Tutta la loro storia sembra una recita, perché sembra assurdo, al giorno d’oggi, pensare che per stare bene si abbia bisogno di qualcuno. Eppure l’uomo è un animale sociale e per vivere ha bisogno del contatto umano. Questo diventa Catherine per Frank, una via d’uscita da un tunnel che non ha sbocco alcuno. I personaggi di questo romanzo sono estremamente fragili, tanto che si accompagnano al minimo accenno di un sorriso. Le camere dove si rifugiano diventano centro nevralgico dello svilupparsi della loro storia. Ogni stanza, spoglia, fredda o disordinata, racconta una parte dei personaggi, racconta la loro fragilità ma anche la loro forza.
François e Catherine ci mettono un po’ a costruire il loro amore perché, in sostanza, questo non nasce in loro, ma si riconosce. L’uno capisce la sofferenza dell’altra, la solitudine che attanaglia chi non ha neanche un amico o il lavoro. Capiscono vicendevolmente il dolore che provano e, capendolo, si innamorano del vuoto dell’altro, pronti a colmarlo.
Il racconto di Simenon è
quello di un amore maturo, lontano dagli amori adolescenziali di cui sono
abituata a leggere. Mentre le classiche storie d’amore si costruiscono con i
protagonisti che già si sa che finiranno insieme, per Frank e Kay si prevede
solo rovina, dolore su dolore, nella credenza che nessuno dei due sia in grado
di amare sul serio. Eppure se ad un primo impatto Frank ci appare come duro e
burbero, si dimostra estremamente più fragile di Kay, descritta d’altro canto
come delicata, ma che alla fine si scopre decisa e, forse, la persona giusta
per stare dietro ad una personalità come quella di Frank.
Tre camere come tre
passi per allontanarsi il pozzo profondo della solitudine. A volte basta
davvero anche un sorriso per salvare un’altra persona.
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