Il coraggioso documentario Netflix mette luce su tutte quelle ombre che il consumismo cerca di coprire assoggettando, tramite un vero e proprio lavaggio del cervello, l’ignaro compratore. Non importa che sia online o dal vivo, tutti noi dal momento in cui compriamo veniamo ingannati da marchi e aziende.
Personalmente non sono una grandissima fan del consumismo, come dico sempre: compro il nuovo solo quando questo è strettamente necessario, ma non per questo mi sento estranea e meno colpevole. Il documentario, invece, in un certo senso mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo.
Quante volte ci siamo sentiti in colpa per aver comprato online a prezzi stracciati? Quante volte tentenniamo nel comprarci uno sfizio mettendo al primo posto l’ambiente? Ebbene, tutto ciò è lodevole, ma dopo aver finito con la visione di “Buy Now – L’inganno del consumismo” mi è chiara una cosa: non spetta a noi compratori pensare agli scarti, ma ai venditori stessi.
Non è un mistero: le multinazionali fanno di tutto, letteralmente, per aumentare i propri profitti e indurre qualsiasi persona a comprare sempre di più. Sono metodi scientifici studiati fin dai tempi più antichi e che possiamo riassumere in una frase: per vendere bisogna fare in modo che la gente ne senta il bisogno. Ma con il passare del tempo si è giunti a un livello davvero folle, rendendo il marketing qualcosa di totalmente manipolatore e diabolico. Sono cinque le regole che utilizzano le aziende per massimizzare le vendite: produrre sempre di più, scartare di più, mentire di più, occultare di più e controllare di più. Come? Ce lo spiegano direttamente ex dipendenti e manager tra cui: Maren Costa (dipendente Amazon responsabile al miglioramento vendite), Eric Liedke (ex presidente Adidas) e Nirav Patel (ex sviluppatore software della Apple). Questi sono solo tre nomi di aziende famose in tutto il mondo, ma di certo non le uniche a impattare gravi danni all’ambiente e alla salute di tutti gli esseri viventi, umani compresi.
Il piano è semplice: per vendere bisogna produrre.
Così per vendere di più, bisogna produrre di più. Il fenomeno fast fashion (con marchi come Shein, Gap, Zara, H&M…) riesce a produrre più di cento miliardi di articoli all’anno. Considerando che al mondo siamo otto miliardi e che solo una piccola percentuale di noi riesce a comprare ogni mese senza gravare sul proprio conto, sono cifre esorbitanti ma che sanno di insano anche agli occhi di un devoto al consumismo. Ora pensiamo per un attimo che l’abbigliamento non è la sola categoria che possiamo comprare con un click, ci sta l’elettronica, l’oggettistica, le scarpe… Abbiamo davvero bisogno di tutto questo?
Certo che no, ma è da qui che nasce la tecnica della manipolazione mentale: ogni azienda, ogni marchio sa perfettamente che nessuno di noi ha bisogno di un armadio pieno di vestiti, ma allo stesso tempo non vuole ridurre i suoi profitti. Così crea il bisogno del nuovo oggetto. Sappiamo tutti come funziona con la moda, con capi che si rovinano dopo pochi lavaggi, ma è il settore dell’elettronica a essere più subdolo: sempre più aziende stanno rendendo impossibile la riparazione degli apparecchi. Conosciamo più o meno tutti l’obsolescenza programmata – strategia intenzionata con la quale i produttori riducono la durata di vita dei prodotti – che ci costringe a cambiare dispositivi con sempre più frequenza. Ebbene, sono una grande sostenitrice del riparare, ma persino io mi sono resa conto che ultimamente sta diventando sempre più difficile. Il documentario me lo ha spiegato bene: sono le aziende stesse che aumentano la difficoltà nel trovare ricambi, o persino nel poterlo fare creando prodotti sigillati. Il risultato? Tredici milioni di apparecchi elettronici buttati ogni giorno.
Quando però piccoli gruppi si svegliano, anche all’interno delle aziende stesse, chiedendo più riguardo per l’ambiente e tutela per in consumatori – oltre a essere licenziati – i marchi continuano con il loro piano subdolo ed è qui che arriva il mentire. Quante etichette verdi pro riciclaggio, quanti comunicati o pubblicità totalmente greenwashing abbiamo in giro per il web o la televisione? Davvero crediamo che a queste multinazionali importi? E in effetti no. Esperti di riciclaggio ci fanno aprire gli occhi dicendoci che la maggior parte delle etichette “riciclo” sono false perché i prodotti utilizzati sono tutti non riciclabili. Così ogni cosa che compriamo a cuor più leggero, perché crediamo di far del bene finiscono nelle discariche, come succede in Ghana. Fermiamoci un attimo a pensare: trenta milioni di abitanti che ogni settimana si ritrovano con quindici milioni di vestiti usati. Una cifra così esorbitante che le spiagge sono invase da vestiti. E non funziona neanche meglio con gli scarti delle aziende stesse: tutti i prodotti non venduti vengono volontariamente usurpati per non essere utilizzati da altri, negandoli persino alle persone più bisognose.
Questo ovviamente non vale solo per i tessuti, ma anche per materiale tecnologico che è ben più pericoloso se pensiamo che la sua rottura può far fuoriuscire sostanze altamente tossiche.
Penseremmo che le aziende qui non hanno voce in capitolo, che non sanno nulla perché non è più un loro problema. No. O meglio: loro dicono così, ma nell’effettivo non è vero. Dal momento in cui produci qualsiasi cosa ne sei responsabile fino alla sua fine. Ma di questo non si vuole parlare, meglio lavarsene le mani e girarsi dall’altra parte, dopotutto non è sulle nostre spiagge che si accumulano rifiuti, non sono i nostri mari a essere inquinati, non siamo noi a respirare a lungo certe sostanze…
E ora l’ultimo punto, il più decisivo: controllare di più. Perché dopotutto un popolo ben controllato è un popolo più facile da governare. Un popolo che si tiene buono a suon di prodotti innovativi, che ricerca la felicità nel materiale perché è così che è cresciuto – più hai i soldi, più vali. Più hai cose, più vali. Più sei alla moda, più vali – è un popolo che sarà sempre schiavo del consumismo, al pari di una dipendenza. Basta zittire le voci fuori dal coro, basta rendere il denaro il vero e unico dio, in modo tale che nessuno si faccia domande per paura di perdere anche quel poco che ha.
Per approfondire il discorso, vi consiglio davvero di guardare il documentario. Ma prima vorrei anche che tutti noi riflettessimo sul consumismo: quanto di quello che compriamo è strettamente necessario?
Personalmente non sono una grandissima fan del consumismo, come dico sempre: compro il nuovo solo quando questo è strettamente necessario, ma non per questo mi sento estranea e meno colpevole. Il documentario, invece, in un certo senso mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo.
Quante volte ci siamo sentiti in colpa per aver comprato online a prezzi stracciati? Quante volte tentenniamo nel comprarci uno sfizio mettendo al primo posto l’ambiente? Ebbene, tutto ciò è lodevole, ma dopo aver finito con la visione di “Buy Now – L’inganno del consumismo” mi è chiara una cosa: non spetta a noi compratori pensare agli scarti, ma ai venditori stessi.
Non è un mistero: le multinazionali fanno di tutto, letteralmente, per aumentare i propri profitti e indurre qualsiasi persona a comprare sempre di più. Sono metodi scientifici studiati fin dai tempi più antichi e che possiamo riassumere in una frase: per vendere bisogna fare in modo che la gente ne senta il bisogno. Ma con il passare del tempo si è giunti a un livello davvero folle, rendendo il marketing qualcosa di totalmente manipolatore e diabolico. Sono cinque le regole che utilizzano le aziende per massimizzare le vendite: produrre sempre di più, scartare di più, mentire di più, occultare di più e controllare di più. Come? Ce lo spiegano direttamente ex dipendenti e manager tra cui: Maren Costa (dipendente Amazon responsabile al miglioramento vendite), Eric Liedke (ex presidente Adidas) e Nirav Patel (ex sviluppatore software della Apple). Questi sono solo tre nomi di aziende famose in tutto il mondo, ma di certo non le uniche a impattare gravi danni all’ambiente e alla salute di tutti gli esseri viventi, umani compresi.
Il piano è semplice: per vendere bisogna produrre.
Così per vendere di più, bisogna produrre di più. Il fenomeno fast fashion (con marchi come Shein, Gap, Zara, H&M…) riesce a produrre più di cento miliardi di articoli all’anno. Considerando che al mondo siamo otto miliardi e che solo una piccola percentuale di noi riesce a comprare ogni mese senza gravare sul proprio conto, sono cifre esorbitanti ma che sanno di insano anche agli occhi di un devoto al consumismo. Ora pensiamo per un attimo che l’abbigliamento non è la sola categoria che possiamo comprare con un click, ci sta l’elettronica, l’oggettistica, le scarpe… Abbiamo davvero bisogno di tutto questo?
Certo che no, ma è da qui che nasce la tecnica della manipolazione mentale: ogni azienda, ogni marchio sa perfettamente che nessuno di noi ha bisogno di un armadio pieno di vestiti, ma allo stesso tempo non vuole ridurre i suoi profitti. Così crea il bisogno del nuovo oggetto. Sappiamo tutti come funziona con la moda, con capi che si rovinano dopo pochi lavaggi, ma è il settore dell’elettronica a essere più subdolo: sempre più aziende stanno rendendo impossibile la riparazione degli apparecchi. Conosciamo più o meno tutti l’obsolescenza programmata – strategia intenzionata con la quale i produttori riducono la durata di vita dei prodotti – che ci costringe a cambiare dispositivi con sempre più frequenza. Ebbene, sono una grande sostenitrice del riparare, ma persino io mi sono resa conto che ultimamente sta diventando sempre più difficile. Il documentario me lo ha spiegato bene: sono le aziende stesse che aumentano la difficoltà nel trovare ricambi, o persino nel poterlo fare creando prodotti sigillati. Il risultato? Tredici milioni di apparecchi elettronici buttati ogni giorno.
Quando però piccoli gruppi si svegliano, anche all’interno delle aziende stesse, chiedendo più riguardo per l’ambiente e tutela per in consumatori – oltre a essere licenziati – i marchi continuano con il loro piano subdolo ed è qui che arriva il mentire. Quante etichette verdi pro riciclaggio, quanti comunicati o pubblicità totalmente greenwashing abbiamo in giro per il web o la televisione? Davvero crediamo che a queste multinazionali importi? E in effetti no. Esperti di riciclaggio ci fanno aprire gli occhi dicendoci che la maggior parte delle etichette “riciclo” sono false perché i prodotti utilizzati sono tutti non riciclabili. Così ogni cosa che compriamo a cuor più leggero, perché crediamo di far del bene finiscono nelle discariche, come succede in Ghana. Fermiamoci un attimo a pensare: trenta milioni di abitanti che ogni settimana si ritrovano con quindici milioni di vestiti usati. Una cifra così esorbitante che le spiagge sono invase da vestiti. E non funziona neanche meglio con gli scarti delle aziende stesse: tutti i prodotti non venduti vengono volontariamente usurpati per non essere utilizzati da altri, negandoli persino alle persone più bisognose.
Questo ovviamente non vale solo per i tessuti, ma anche per materiale tecnologico che è ben più pericoloso se pensiamo che la sua rottura può far fuoriuscire sostanze altamente tossiche.
Penseremmo che le aziende qui non hanno voce in capitolo, che non sanno nulla perché non è più un loro problema. No. O meglio: loro dicono così, ma nell’effettivo non è vero. Dal momento in cui produci qualsiasi cosa ne sei responsabile fino alla sua fine. Ma di questo non si vuole parlare, meglio lavarsene le mani e girarsi dall’altra parte, dopotutto non è sulle nostre spiagge che si accumulano rifiuti, non sono i nostri mari a essere inquinati, non siamo noi a respirare a lungo certe sostanze…
E ora l’ultimo punto, il più decisivo: controllare di più. Perché dopotutto un popolo ben controllato è un popolo più facile da governare. Un popolo che si tiene buono a suon di prodotti innovativi, che ricerca la felicità nel materiale perché è così che è cresciuto – più hai i soldi, più vali. Più hai cose, più vali. Più sei alla moda, più vali – è un popolo che sarà sempre schiavo del consumismo, al pari di una dipendenza. Basta zittire le voci fuori dal coro, basta rendere il denaro il vero e unico dio, in modo tale che nessuno si faccia domande per paura di perdere anche quel poco che ha.
Per approfondire il discorso, vi consiglio davvero di guardare il documentario. Ma prima vorrei anche che tutti noi riflettessimo sul consumismo: quanto di quello che compriamo è strettamente necessario?
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