Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.
Oggi analizziamo il diciottesimo canto del Purgatorio. Abbiamo lasciato definitivamente gli iracondi per entrare in una nuova cornice, la quarta, quella degli accidiosi. Incontreremo tra loro un’anima, quella dell’abate di San Zeno, e in più continueremo a esplorare il complesso tema dell’amore e del libero arbitrio.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale. Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Posto avea fine al suo ragionamento
l’alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s’io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse
lo troppo dimandar ch’io fo li grava’.
Ma quel padre verace, che s’accorse
del timido voler che non s’apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e ‘l suo contraro».
«Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci
de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto
l’error de’ ciechi che si fanno duci.
L’animo, ch’è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l’animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come ‘l foco movesi in altura
per la sua forma ch’è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer quant’è nascosa
la veritate a la gente ch’avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera».
«Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno»,
rispuos’io lui, «m’hanno amor discoverto,
ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s’amore è di fuori a noi offerto,
e l’anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto».
Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede,
dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta
pur a Beatrice, ch’è opra di fede.
Ogne forma sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.
Però, là onde vegna lo ‘ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’altra si raccoglia,
innata v’è la virtù che consiglia,
e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’è ‘l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
s’accorser d’esta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende».
l’alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s’io parea contento;
e io, cui nova sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: ‘Forse
lo troppo dimandar ch’io fo li grava’.
Ma quel padre verace, che s’accorse
del timido voler che non s’apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e ‘l suo contraro».
«Drizza», disse, «ver’ me l’agute luci
de lo ‘ntelletto, e fieti manifesto
l’error de’ ciechi che si fanno duci.
L’animo, ch’è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l’animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver’ di lei si piega,
quel piegare è amor, quell’è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come ‘l foco movesi in altura
per la sua forma ch’è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote apparer quant’è nascosa
la veritate a la gente ch’avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera».
«Le tue parole e ‘l mio seguace ingegno»,
rispuos’io lui, «m’hanno amor discoverto,
ma ciò m’ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s’amore è di fuori a noi offerto,
e l’anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto».
Ed elli a me: «Quanto ragion qui vede,
dir ti poss’io; da indi in là t’aspetta
pur a Beatrice, ch’è opra di fede.
Ogne forma sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.
Però, là onde vegna lo ‘ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’altra si raccoglia,
innata v’è la virtù che consiglia,
e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’è ‘l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che ragionando andaro al fondo,
s’accorser d’esta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s’accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende».
Nel canto precedente Virgilio ha spiegato come meglio poteva la teoria sull’amore e Dante si mostra soddisfatto, anche se ancora molto dubbioso. Non vuole, però, parlare dei suoi dubbi perché ha paura di infastidire la sua guida, ma quest’ultima lo incita a domandare senza problemi.
Dante così dichiara di aver capito che tutto nasce dall’amore, ma non si spiega come sia possibile che da questa radice possano nascere sia azioni buone che azioni malvage.
Virgilio prepara Dante di seguirlo con attenzione, proprio con gli occhi della mente, in questo ragionamento, per non cadere nel tranello in cui incappano i suoi colleghi poeti stilnovisti che pensano di conoscere l’amore ma si ingannano. In quella corrente di pensiero, infatti, si credeva che amare fosse sempre giusto, senza considerare le situazioni come violenza, adulterio, ingordigia…
È vero, sostiene Virgilio, l’amore è una tendenza istintiva dell’animo verso ciò che piace e quindi è ancora più vero che tutti gli esseri umani sono naturalmente predisposti ad amare, ma come l’essere umano è provvisto di spirito, così è provvisto anche della ragione che sa ben distinguere tra bene e male. Se, quindi, l’amore nasce come forma di necessità – perché non possiamo farne a meno – la volontà dell’uomo dovrebbe guidarlo verso quella strada se lo ritiene giusto, o respingerlo se lo ritiene sbagliato.
Dante segue attentamente il discorso di Virgilio e capisce la vera essenza dell’amore, ma continua con le sue domande – è giusto così, dobbiamo cercare di frugare sempre i nostri dubbi – obiettando su quanto detto: se, secondo Dante, l’amore è sempre dato da noi e l’anima punta sempre a esso, se procede nel bene o nel male di certo non può essere suo merito, quindi a che servono Paradiso e Inferno?.
A questo Virgilio replica che non può avere la risposta, perché è un’anima che può scrutare solo l’intelletto, la ragione umana, e per questo ha una conoscenza limitata. Dovrà attendere l’incontro con Beatrice, simbolo della Teologia, per avere una spiegazione più completa.
Ogni essere umano, continua Virgilio, ha sia l’anima che l’intelletto ed è per questo che è predisposto alla conoscenza di sé ma questa avviene solo attraverso la pratica delle virtù morali, che si manifestano solo negli effetti che hanno nella sua vita, proprio come le piante si mostra dal verde delle foglie. O, come detto da Gesù: dall’albero buono che dà frutti buoni. Ma nonostante questa predisposizione, mai l’uomo in quanto legato alla materia comprenderà davvero da dove nascono le prime verità o il trasporto dell’anima verso l’amore, si deve accontentare di saperlo come un qualcosa di inconscio, così come l’ape fa il miele per un istinto innato.
Proprio perché tutto è difficile da controllare in noi, servono sia le dottrine morali che il lungo lavoro di discernimento così da comprendere se è il caso di proseguire per una via oppure no. Mi sento di aggiungere in più che non è assolutamente un caso se questo discorso viene affrontato nel canto degli accidiosi, visto che il lavoro per distinguere il bene dal male è davvero tosto.
Alla base di tutto vi è quindi il libero arbitrio: il dono più grande datoci da Dio a testimonianza che Lui con noi vuole una relazione di assoluta libertà, senza nessuna imposizione. Ma questo è un discorso da fare meglio con Beatrice, ecco perché spera che Dante si possa ricordare di domandarle a riguardo.
Perché credo che il lavoro di discernimento sia davvero complicato? Beh, tutti noi sappiamo che fare violenza verso qualcuno è sbagliato e che invece fare atti di misericordia è giusto, ma come comportarci quando agiamo senza pensare a favor di giustizia, senza considerare che stiamo compiendo azioni pensando solo al nostro punto di vista, solo alla nostra personale giustizia? O quando diciamo no a una persona che ci vuole bene solo perché siamo troppo stanchi? Tra il bianco e nero vi sono infinite sfumature, come riconoscere in tutte queste il giusto e lo sbagliato se non ci facciamo guidare?
La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com’un secchion che tuttor arda;
e correa contro ‘l ciel per quelle strade
che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.
E quell’ombra gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per ch’io, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com’om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno già vide e Asopo
lungo di sè di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca,
per quel ch’io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr’a noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
«Maria corse con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
«Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda».
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com’un secchion che tuttor arda;
e correa contro ‘l ciel per quelle strade
che ‘l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.
E quell’ombra gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per ch’io, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com’om che sonnolento vana.
Ma questa sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno già vide e Asopo
lungo di sè di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca,
per quel ch’io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr’a noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
«Maria corse con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
«Ratto, ratto, che ‘l tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda».
Alleggerito dalle risposte di Virgilio e complice la mezzanotte, Dante sente montare su di sé il sonno che quasi lo fa addormentare, salvo destarsi nuovamente e improvvisamente quando sente arrivare alle sue spalle una schiera di anime correre furiosamente e gridare a gran voce due esempi di virtù contrarie al peccato dell’accidia. Il primo è evangelico, e parla di Maria che, incinta di pochi mesi, va dalla cugina Elisabetta, prossima al parto; il secondo è storico, e tratta la vicenda di Cesare che, per sottomettere Lerida, conquista la Marsiglia e subito dopo corre verso la Spagna. Dopo questi esempi le anime aggiungono: “Presto, presto, che non si perda tempo per negligenza d’amore, cosicché la voglia di far del bene rinvigorisca la grazia”.
All’inizio del cammino del Purgatorio abbiamo già spiegato come qui sia impossibile perdere tempo e che bisogna sempre procedere, camminare ma solo finché il sole splende nel cielo, perché senza la Grazia Divina è impossibile proseguire.
Per gli accidiosi la situazione è differente: loro continuano a correre anche in piena notte, come per rimpinguare tutto l’amore che non sono riusciti a dare in vita.
«O gente in cui fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo i’ non vi bugio,
vuole andar sù, pur che ‘l sol ne riluca;
però ne dite ond’è presso il pertugio».
Parole furon queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo ‘mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d’avere avuta possa;
perché suo figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero».
Io non so se più disse o s’ei si tacque,
tant’era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che m’era ad ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a l’accidïa di morso».
Di retro a tutti dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar s’aperse,
che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che l’affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d’Anchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse».
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell’ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto d’uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e ‘l pensamento in sogno trasmutai.
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che vive, e certo i’ non vi bugio,
vuole andar sù, pur che ‘l sol ne riluca;
però ne dite ond’è presso il pertugio».
Parole furon queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo ‘mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d’avere avuta possa;
perché suo figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero».
Io non so se più disse o s’ei si tacque,
tant’era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che m’era ad ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a l’accidïa di morso».
Di retro a tutti dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar s’aperse,
che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che l’affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d’Anchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse».
Poi quando fuor da noi tanto divise
quell’ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto d’uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e ‘l pensamento in sogno trasmutai.
Virgilio chiede alle anime di indicare loro la direzione verso la quinta cornice e risponde una che prima si scusa con loro per continuare a correre, ma qui tutti sono desiderosi di farlo per purgarsi il più velocemente possibile, poi dice loro di seguirlo se vogliono proseguire lungo il loro cammino.
Si presenta come abate di San Zeno quando era imperatore Federico Barbarossa e in effetti ancora oggi di più su questa figura si sa ben poco. Pare fosse conosciuto con il nome di Gherardo II e che morì nel 1187, essendo così abate del monastero per circa venticinque anni. Più che della sua vita, però, l’abate vuole fare la sua invettiva verso il signore di Verona – Alberto della Scala – per aver nominato Giovanni, suo figlio illegittimo come nuovo abate del monastero. Era infatti impensabile per l’epoca che un figlio nato da una relazione extraconiugale diventasse abate, in più pare che Giovanni fosse deforme fisicamente. Sempre all’epoca era considerato un vero scandalo.
L’anima non aggiunge altro, perché corre via da Dante e Virgilio, ma si avvicinano altre due che urlano le colpe dell’accidia e per farlo utilizzano due esempi, uno sempre religioso: alcuni tra il popolo ebraico morti nel deserto per non aver voluto seguire Mosé; e uno mitologico: i compagni di Enea che fermandosi in Sicilia non lo seguirono nel viaggio verso il Lazio.
Quando anche queste anime si allontano da loro, in Dante nascono sempre più pensieri, così intensi che desiderando di seguirli si sforza al punto da svenire dal sonno.
Se ricordate i primi canti dell’Inferno, abbiamo già parlato del significato degli svenimenti nella Divina Commedia: nel simbolismo della morte e rinascita, sonno e veglia, c’è una nuova consapevolezza che ha preso vigore in lui. E non a caso ha scelto il termine trasmutare.
Vedremo di più il prossimo mese…
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