Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.
Oggi analizziamo il diciassettesimo canto del Purgatorio. Lasceremo la cornice degli iracondi per entrare, dopo esserci purificati dal peccato, in quella degli accidiosi. Virgilio, inoltre, ci farà un’importante lezione sulla teoria dell’amore.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale. Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Uscendo dalla nube di fumo presente nella terza cornice, Dante torna a rivedere la luce del sole e ne rimane quasi accecato proprio come nell’immaginario del Medioevo doveva sentirsi una talpa quando va verso la superficie e torna a vedere. Facendosi sicuro per i passi di Virgilio, Dante prova a seguirlo ma in quel momento viene investito da tre visioni che sembrano più che reali: vede Procne tramutata in usignolo, Aman crocifisso e la regina Amata che ci suicida per non assistere al matrimonio della figlia con Enea.
Ora, vediamo più nel dettaglio questi avvenimenti: due dei quali mitologici (il primo e il terzo) e il secondo preso dalla Bibbia.
Procne è la figlia di Pandiore, ottavo re di Atene e della ninfa Zeusippe; ha una sorella di nome Filomena ed è moglie del re della Tracia Tereo.
Tereo violenta la cognata Filomena e dopo il gesto le toglie la lingua per evitare di andarlo a dire in giro. Lei, però, riesce comunque a comunicarlo alla sorella la quale ha la brillante idea di vendicarsi facendo a pezzi il figlio Iti e, dopo averlo cotto, lo serve da mangiare al marito. Quando lui lo viene a sapere, trasforma la moglie in un usignolo.
La storia di Aman è presente nella Bibbia, più precisamente nel Libro di Ester.
Aman è il gran visir del re persiano Assuero il quale decide, dopo aver ripudiato la prima moglie, di sposarsi con la giovane Ester. La ragazza, ebrea, vive insieme al cugino Mardocheo dopo essere rimasta orfana.
Come gran visir, chiunque è costretto a inchinarsi davanti al passaggio di Aman, ma Mardocheo si rifiuta sostenendo che l’unico a cui si deve inchinare è proprio Dio. Assuero è d’accordo con il cugino della moglie, e gli concede tale privilegio, ma questo manda su tutte le furie Aman che non solo vuole uccidere Mardocheo, punta a sterminare tutto il popolo ebraico. Così convince il re a emanare un decreto di morte per tutti i giudei in quanto, secondo lui, mai si sottometteranno allo Stato persiano.
Sarà proprio Ester, che poi confesserà al marito di essere lei stessa ebrea, a intercedere tra Assuero e il Signore, così il re non solo ritratterà il decreto, ma farà uccidere Aman sulla stessa croce che il visir aveva riservato per Mardocheo.
La terza visione è tratta dall’Eneide. Dante sente il lamento di Lavinia, moglie di Enea che piange disperata la morte della madre Amata, morta suicida affinché non vedesse la figlia andare in sposa a un altro uomo che non fosse il re dei Rutuli, Turno.
La rabbia di Progne, di Aman e di Amata, quindi, ricorda a Dante il peso di questo peccato che non fa stare male solo gli altri, ma anche noi stessi con conseguenze che arrivano sia in Terra che nel Cielo.
Le visioni sono arrivate improvvisamente e allo stesso modo finiscono, anche perché Dante è immerso in un fascio di luce immensa che lo colpisce in viso. Spaesato dall’accaduto, si guarda intorno per cercare di capire cosa sia successo, ma sente solo una voce intimargli di salire. Dante ha ora un unico desiderio: capire chi è che ha parlato, ma non riceve risposta se non da Virgilio. Quanto successo è opera di un angelo, quello della pace, così carico di luce da nascondersi nella luce stessa.
Ma è tempo di camminare, perché il sole è al tramonto e devono procedere il più possibile prima del buio. Quando vedono una scala, la percorrono e già al primo gradino Dante sente come un soffio sulla sua fronte, con una voce che dice: “Beati i pacifici che sono senza ira cattiva!”
Ma perché l’angelo si nasconde nella luce stessa? Lo spiega magistralmente Virgilio: l’angelo si comporta con l’essere umano esattamente come l’umano si comporta con se stesso. Per vedere la pace, quindi, dobbiamo prima di tutto essere pace sia con noi stessi che con gli altri, perché facciamo parte tutti allo stesso modo dell’umanità.
Quando finiscono di percorrere la scala, è ormai buio e in più le gambe di Dante faticano a proseguire. È segno che ormai l’unica cosa da fare è attendere l’alba. Ricordiamo, infatti, che la purificazione non può avvenire senza la luce divina, ecco perché al tramonto i due devono smettere di procedere.
Dante, però, non vuole perdere tempo – anche perché in Purgatorio non si può fare – e chiede a Virgilio di parlargli, in modo tale che possa comunque apprendere di più.
Virgilio spiega così che in quella cornice vi sono gli accidiosi, cioè le anime che in vita hanno amato meno del dovuto e che ora compensano questa loro mancanza correndo velocemente, ma questo lo vedremo meglio il prossimo mese.
Proprio come nell’XI canto dell’Inferno, ora Virgilio ci spiega come funziona il Purgatorio e proprio come il canto precedente, ci rivela una teoria molto difficile, forse, da comprendere in una sola volta: quella dell’amore, almeno la sua prima parte.
L’uomo, essendo a immagine e somiglianza di Dio ed essendo da Lui creato, non può essere senza amore. Questo amore che proviene direttamente da Dio, però, nell’uomo si divide in due modi: quello naturale e quello d’animo (potremmo dire razionale, cioè deciso dall’uomo). Il primo non sbaglia mai, perché proviene direttamente dalla fonte e non può mai andare né contro noi stessi, né contro Dio. Il secondo, invece, può deviare se si volge verso il male, scatenando i peccati.
Allora perché si pecca?
Nell’amore razionale siamo noi a decidere verso chi e come indirizzarlo, quindi possiamo peccare in tre modi differenti: per amore rivolto a scopo malvagio (superbia, invidia e ira), per poca volontà nell’impiegare l’amore verso il bene (accidia) e per eccesso d’amore verso i beni materiali o piaceri carnali (avarizia, gola e lussuria).
Ogni anima è naturalmente attratta dal bene, sentendosi appagata quando lo raggiunge ma deve fare i conti con le devianze del mondo materiale, per questo deve essere ben educata a mantenere l’equilibrio verso questo tipo d’amore.
Qui si ritorna al discorso che abbiamo sempre fatto fin dall’inizio: non è l’azione di per sé a essere malvagia, ma è il suo scopo. Non è male mangiare una fetta di torta, ma certo lo è se mangiamo una torta al giorno in stile Dean Winchester.
Potremmo finirla qui, ma i più attenti avranno certo notato che Virgilio ha detto che il peccato non può essere rivolto verso noi stessi o Dio, tralasciando quindi le schiere di suicidi e bestemmiatori incontrati all’Inferno.
Se vi ricordate, i suicidi, presenti nel XIII Canto dell’Inferno, nella loro selva, sono anime ora trasformate in alberi secchi, straziati dalle Arpie. I bestemmiatori, invece, sono presenti nel canto successivo, il XIV, e sono a terra sdraiati, senza possibilità di movimento.
Entrambi i peccati vengono puniti in modo tale che l’anima non possa muoversi, neanche lentamente, a indicare che per questi peccati non esiste purificazione. Forse…
Oggi analizziamo il diciassettesimo canto del Purgatorio. Lasceremo la cornice degli iracondi per entrare, dopo esserci purificati dal peccato, in quella degli accidiosi. Virgilio, inoltre, ci farà un’importante lezione sulla teoria dell’amore.
Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale. Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com’io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
ai raggi morti già ne’ bassi lidi.
O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se ‘l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
ne l’imagine mia apparve l’orma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crucifisso dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si morìa;
intorno ad esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e ‘l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
cui manca l’acqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t’hai per non perder Lavina;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com’io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì, pareggiando i miei co’ passi fidi
del mio maestro, usci’ fuor di tal nube
ai raggi morti già ne’ bassi lidi.
O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se ‘l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
ne l’imagine mia apparve l’orma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crucifisso dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si morìa;
intorno ad esso era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e ‘l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
cui manca l’acqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t’hai per non perder Lavina;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch’a l’altrui ruina».
![]() |
Filomena e Procne, Elizabeth Jane Gardner |
Ora, vediamo più nel dettaglio questi avvenimenti: due dei quali mitologici (il primo e il terzo) e il secondo preso dalla Bibbia.
Procne è la figlia di Pandiore, ottavo re di Atene e della ninfa Zeusippe; ha una sorella di nome Filomena ed è moglie del re della Tracia Tereo.
Tereo violenta la cognata Filomena e dopo il gesto le toglie la lingua per evitare di andarlo a dire in giro. Lei, però, riesce comunque a comunicarlo alla sorella la quale ha la brillante idea di vendicarsi facendo a pezzi il figlio Iti e, dopo averlo cotto, lo serve da mangiare al marito. Quando lui lo viene a sapere, trasforma la moglie in un usignolo.
La storia di Aman è presente nella Bibbia, più precisamente nel Libro di Ester.
Aman è il gran visir del re persiano Assuero il quale decide, dopo aver ripudiato la prima moglie, di sposarsi con la giovane Ester. La ragazza, ebrea, vive insieme al cugino Mardocheo dopo essere rimasta orfana.
Come gran visir, chiunque è costretto a inchinarsi davanti al passaggio di Aman, ma Mardocheo si rifiuta sostenendo che l’unico a cui si deve inchinare è proprio Dio. Assuero è d’accordo con il cugino della moglie, e gli concede tale privilegio, ma questo manda su tutte le furie Aman che non solo vuole uccidere Mardocheo, punta a sterminare tutto il popolo ebraico. Così convince il re a emanare un decreto di morte per tutti i giudei in quanto, secondo lui, mai si sottometteranno allo Stato persiano.
Sarà proprio Ester, che poi confesserà al marito di essere lei stessa ebrea, a intercedere tra Assuero e il Signore, così il re non solo ritratterà il decreto, ma farà uccidere Aman sulla stessa croce che il visir aveva riservato per Mardocheo.
La terza visione è tratta dall’Eneide. Dante sente il lamento di Lavinia, moglie di Enea che piange disperata la morte della madre Amata, morta suicida affinché non vedesse la figlia andare in sposa a un altro uomo che non fosse il re dei Rutuli, Turno.
La rabbia di Progne, di Aman e di Amata, quindi, ricorda a Dante il peso di questo peccato che non fa stare male solo gli altri, ma anche noi stessi con conseguenze che arrivano sia in Terra che nel Cielo.
Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così l’imaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch’è in nostro uso.
I’ mi volgea per veder ov’io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava.
«Questo è divino spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa con noi, come l’uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l’uopo vede,
malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede;
procacciam di salir pria che s’abbui,
ché poi non si poria, se ‘l dì non riede».
Così disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto ch’io al primo grado fui,
senti’mi presso quasi un muover d’ala
e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati
pacifici, che son sanz’ira mala!’.
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così l’imaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch’è in nostro uso.
I’ mi volgea per veder ov’io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava.
«Questo è divino spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa con noi, come l’uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l’uopo vede,
malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a tanto invito il piede;
procacciam di salir pria che s’abbui,
ché poi non si poria, se ‘l dì non riede».
Così disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto ch’io al primo grado fui,
senti’mi presso quasi un muover d’ala
e ventarmi nel viso e dir: ‘Beati
pacifici, che son sanz’ira mala!’.
Le visioni sono arrivate improvvisamente e allo stesso modo finiscono, anche perché Dante è immerso in un fascio di luce immensa che lo colpisce in viso. Spaesato dall’accaduto, si guarda intorno per cercare di capire cosa sia successo, ma sente solo una voce intimargli di salire. Dante ha ora un unico desiderio: capire chi è che ha parlato, ma non riceve risposta se non da Virgilio. Quanto successo è opera di un angelo, quello della pace, così carico di luce da nascondersi nella luce stessa.
Ma è tempo di camminare, perché il sole è al tramonto e devono procedere il più possibile prima del buio. Quando vedono una scala, la percorrono e già al primo gradino Dante sente come un soffio sulla sua fronte, con una voce che dice: “Beati i pacifici che sono senza ira cattiva!”
Ma perché l’angelo si nasconde nella luce stessa? Lo spiega magistralmente Virgilio: l’angelo si comporta con l’essere umano esattamente come l’umano si comporta con se stesso. Per vedere la pace, quindi, dobbiamo prima di tutto essere pace sia con noi stessi che con gli altri, perché facciamo parte tutti allo stesso modo dell’umanità.
Già eran sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
’O virtù mia, perché sì ti dilegue?’,
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave ch’a la piaggia arriva.
E io attesi un poco, s’io udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
«Dolce mio padre, dì, quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
Ed elli a me: «L’amor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora».
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
’O virtù mia, perché sì ti dilegue?’,
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave ch’a la piaggia arriva.
E io attesi un poco, s’io udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
«Dolce mio padre, dì, quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
Ed elli a me: «L’amor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora».
Quando finiscono di percorrere la scala, è ormai buio e in più le gambe di Dante faticano a proseguire. È segno che ormai l’unica cosa da fare è attendere l’alba. Ricordiamo, infatti, che la purificazione non può avvenire senza la luce divina, ecco perché al tramonto i due devono smettere di procedere.
Dante, però, non vuole perdere tempo – anche perché in Purgatorio non si può fare – e chiede a Virgilio di parlargli, in modo tale che possa comunque apprendere di più.
Virgilio spiega così che in quella cornice vi sono gli accidiosi, cioè le anime che in vita hanno amato meno del dovuto e che ora compensano questa loro mancanza correndo velocemente, ma questo lo vedremo meglio il prossimo mese.
«Né creator né creatura mai»,
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d’animo; e tu ‘l sai.
Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l’altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
e ne’ secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ‘l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi ch’esser convene
amor sementa in voi d’ogne virtute
e d’ogne operazion che merta pene.
Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l’odio proprio son le cose tute;
e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch’el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch’altri sormonti,
onde s’attrista sì che ‘l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che ‘l male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giù di sotto
si piange; or vo’ che tu de l’altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti l’animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben è che non fa l’uom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, d’ogne ben frutto e radice.
L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
di sovr’a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d’animo; e tu ‘l sai.
Lo naturale è sempre sanza errore,
ma l’altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,
e ne’ secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ‘l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender puoi ch’esser convene
amor sementa in voi d’ogne virtute
e d’ogne operazion che merta pene.
Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l’odio proprio son le cose tute;
e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
che ‘l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi, per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch’el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch’altri sormonti,
onde s’attrista sì che ‘l contrario ama;
ed è chi per ingiuria par ch’aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che ‘l male altrui impronti.
Questo triforme amor qua giù di sotto
si piange; or vo’ che tu de l’altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti l’animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben è che non fa l’uom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, d’ogne ben frutto e radice.
L’amor ch’ad esso troppo s’abbandona,
di sovr’a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
tacciolo, acciò che tu per te ne cerchi».
Proprio come nell’XI canto dell’Inferno, ora Virgilio ci spiega come funziona il Purgatorio e proprio come il canto precedente, ci rivela una teoria molto difficile, forse, da comprendere in una sola volta: quella dell’amore, almeno la sua prima parte.
L’uomo, essendo a immagine e somiglianza di Dio ed essendo da Lui creato, non può essere senza amore. Questo amore che proviene direttamente da Dio, però, nell’uomo si divide in due modi: quello naturale e quello d’animo (potremmo dire razionale, cioè deciso dall’uomo). Il primo non sbaglia mai, perché proviene direttamente dalla fonte e non può mai andare né contro noi stessi, né contro Dio. Il secondo, invece, può deviare se si volge verso il male, scatenando i peccati.
Allora perché si pecca?
Nell’amore razionale siamo noi a decidere verso chi e come indirizzarlo, quindi possiamo peccare in tre modi differenti: per amore rivolto a scopo malvagio (superbia, invidia e ira), per poca volontà nell’impiegare l’amore verso il bene (accidia) e per eccesso d’amore verso i beni materiali o piaceri carnali (avarizia, gola e lussuria).
Ogni anima è naturalmente attratta dal bene, sentendosi appagata quando lo raggiunge ma deve fare i conti con le devianze del mondo materiale, per questo deve essere ben educata a mantenere l’equilibrio verso questo tipo d’amore.
Qui si ritorna al discorso che abbiamo sempre fatto fin dall’inizio: non è l’azione di per sé a essere malvagia, ma è il suo scopo. Non è male mangiare una fetta di torta, ma certo lo è se mangiamo una torta al giorno in stile Dean Winchester.
Potremmo finirla qui, ma i più attenti avranno certo notato che Virgilio ha detto che il peccato non può essere rivolto verso noi stessi o Dio, tralasciando quindi le schiere di suicidi e bestemmiatori incontrati all’Inferno.
Se vi ricordate, i suicidi, presenti nel XIII Canto dell’Inferno, nella loro selva, sono anime ora trasformate in alberi secchi, straziati dalle Arpie. I bestemmiatori, invece, sono presenti nel canto successivo, il XIV, e sono a terra sdraiati, senza possibilità di movimento.
Entrambi i peccati vengono puniti in modo tale che l’anima non possa muoversi, neanche lentamente, a indicare che per questi peccati non esiste purificazione. Forse…
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