venerdì 27 settembre 2024

#DivinaCommedia: Canto VII - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il settimo canto del Purgatorio. Grazie a Sordello scopriamo nuove regole sul Purgatorio, ovviamente non mancheranno incontri con altre anime e, anche se non avremo ancora modo di parlarci, sarà comunque chiaro che siamo nella schiera dei principi negligenti, cioè di tutti coloro che, avendo un incarico importante per il benessere dello Stato e dei cittadini, hanno preferito interessarsi di altri aspetti della vita.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte.
 
Poscia che l’accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».

«Anzi che a questo monte fosser volte
l’anime degne di salire a Dio,
fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.

Io son Virgilio; e per null’altro rio
lo ciel perdei che per non aver fè».
Così rispuose allora il duca mio.

Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond’e’ si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è … non è … »

tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver’ lui,
e abbracciòl là ‘ve ‘l minor s’appiglia.

«O gloria di Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond’io fui,

qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S’io son d’udir le tue parole degno,
dimmi se vien d’inferno, e di qual chiosta».

«Per tutt’i cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mossse, e con lei vegno.

Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.

Luogo è là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.

Quivi sto io coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l’umana colpa essenti;

quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante.

Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».

Dopo i baci e gli abbracci con Virgilio, Sordello chiede a quest’ultimo chi sia. La Guida si presenta, per la prima volta dicendo il suo nome di battesimo, spiegando che proviene in realtà dal Limbo ma che, incaricato di portare Dante alla Salvezza, ha potuto lasciarlo fino a giungere al Purgatorio.
Sordello, al rivelarsi di Virgilio, reagisce con sommo rispetto, abbassandosi come in una sorta di inchino. La Guida continua a spiegare le condizioni del Limbo: un posto oscuro, dove sono presenti tutte le persone che non hanno potuto conoscere il Cristo perché nate prima della Sua venuta e i bambini innocenti, morti prima di aver ricevuto il sacramento del Battesimo. Qui le anime non si lamentano per il dolore, in quanto non sono presenti sofferenze fisiche, ma esprimono il loro disagio in sospiri.


È capitato a tutti noi, almeno una volta nella vita di sentirsi come in un limbo: in una condizione non di dolore, ma in attesa di esso. Inermi, incerti, impauriti per quello che potrebbe accadere. Certo, non si sta male come quando si attraversa l’Inferno, ma questo non vuol dire che ciò che ci portiamo dentro sia meno pesante. Siamo comunque sofferenti, ma non ce ne rendiamo conto.

Arriva per tutti noi il momento in cui sentiamo una chiamata al risveglio, ed è quello il momento in cui ci destiamo dal Limbo. Certo, questa può avvenire a vent’anni, come all’ultimo giorno della nostra vita, non è importante quando, l’importante è farsi trovare pronti, alzarsi in piedi e rispondere.

E infatti così fa Virgilio, che chiede a Sordello la via più veloce per raggiungere la porta del Purgatorio.

Rispuose: «Loco certo non c’è posto;
licito m’è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.

Ma vedi già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.

Anime sono a destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».

«Com’è ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d’altrui, o non sarria ché non potesse?».

E ‘l buon Sordello in terra fregò ‘l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo ‘l sol partito:

non però ch’altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.

Ben si poria con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso».

Allora il mio segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là ‘ve dici
ch’aver si può diletto dimorando».

Poco allungati c’eravam di lici,
quand’io m’accorsi che ‘l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.

«Colà», disse quell’ombra, «n’anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».

Tra erto e piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch’a mezzo muore il lembo.

Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,

da l’erba e da li fior, dentr’a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il menno.

Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.

Salve, Regina’ in sul verde e ‘n su’ fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.

Sordello risponde che lì le anime possono muoversi come vogliono su e giù per il monte, a patto che ci sia la luce. Quando cala la notte, infatti, è così buio che è impossibile proseguire verso l’alto. Si può solo andare giù, verso il basso, così i più cercano un riparo dove attendere la luce della nuova alba.

Camminando, i tre raggiungono una vallata che Dante descrive come piena di fiori dai più splendenti colori e inebrianti profumi. Ne rimane meravigliato, perché non ha mai visto e sentito niente di più bello e buono in vita sua, che non saprebbe neanche descriverlo.

Il Purgatorio è un luogo di espiazione e purificazione e a noi comuni mortali che stiamo leggendo l’esperienza di Rinascita di Dante deve essere ben chiara una cosa: non siamo ancora salvi, ma possiamo vedere un preludio di questa Salvezza.
Così lo facciamo con la vallata, che ricorda tanto il celebre giardino dell’Eden, un luogo dove tutto cresce in abbondanza e si è lontani da ogni sorta di male, dubbio.
Allo stesso tempo, però, il Purgatorio ci ricorda che non siamo ancora pronti alla luce eterna, quindi è inutile procedere quando nella nostra vita torna il buio.
Ancora, fermarsi quando siamo nell’incertezza è la migliore arma che abbiamo per evitare di tornare all’Inferno e ricommettere i peccati che ci avevano imprigionati in uno spirale di dolore.

«Prima che ‘l poco sole omai s’annidi»,
cominciò ‘l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch’io vi guidi.

Di questo balzo meglio li atti e ‘ volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.

Colui che più siede alto e fa sembianti
d’aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,

Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.

L’altro che ne la vista lui conforta,
resse la terra dove l’acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:

Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lusssuria e ozio pasce.

E quel nasetto che stretto a consiglio
par con colui ch’a sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:

guardate là come si batte il petto!
L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.

Padre e suocero son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.

Quel che par sì membruto e che s’accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d’ogne valor portò cinta la corda;

e se re dopo lui fosse rimasto
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,

che non si puote dir de l’altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessuno possiede.

Rade volte risurge per li rami
l’umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.

Anche al nasuto vanno mie parole
non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole.

Tant’è del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.

Vedete il re de la semplice vita
seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.

Quel che più basso tra costor s’atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra

fa pianger Monferrato e Canavese».

Proprio come successo nel suo Compianto in morte di ser Blacatz, anche qui Sordello elenca tutte le infauste vite delle anime presenti, mettendo il carico su quanto siano state poco virtuose, seppur la loro presenza in Purgatorio testimoni che si siano pentite all’ultimo momento, a differenza delle più superbe anime infernali.


Troviamo: Rodolfo d’Asburgo, Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III e Alfonso III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Arrigo III d’Inghilterra e Gulielmo VII di Monferrato. Ciò che risalta all’occhio è che le anime si sostengono tra di loro, seppur siano state rivali in vita e allo stesso tempo sono tristi perché sanno come si stanno comportando i loro eredi.
Qui nasce la domanda etica di Dante: la virtù è ereditaria o no? Basta avere dei genitori grandiosi per ereditarne i tratti? No, perché la virtù arriva solo ed esclusivamente da Dio e un uomo che la cerca, a Lui deve chiederla, per questo è più comune che genitori spregevoli, che poco si sono educati a una vita degna, abbiano figli degni eredi.

Andiamo a vedere brevemente la vita di ognuno di essi, così da capire cosa ha spinto Dante a metterli nell’Antipurgatorio.

Rodolfo d’Asburgo (1218-1291) fu un principe tedesco e colui che darà vita alla grande potenza famigliare degli Asburgo. Pur essendo stato Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1273 fino all’anno della sua morte, ignorò del tutto le sorti dell’Italia, non compiendo neanche una volta un viaggio nella nostra penisola; saltò persino l’incoronazione a Roma, troppo occupato in terra austriaca.
Colui che nel canto sembra rincuorarlo è Ottocaro II di Boemia, suo acerrimo nemico in vita per la carica imperiale.

Ottocaro (1230 o 1233 – 1278) come il primo, alla fin fine era più interessato ad ampliare i suoi territori natali, tanto da essere positivamente riconosciuto dai suoi contemporanei. Muore proprio per mano di Rodolfo, e questo ci fa capire come ogni rivalità in vita sia di poco conto una volta che lasceremo il nostro corpo.

Filippo III di Francia (1245-1285) salì al trono di Francia nel 1270, succedendo al padre Luigi IX. Durante la guerra con Castiglia (vi troveremo Pietro III d’Aragona), perse flotte e rifornimenti, per questo optò per il ritiro, in più sfortuna volle che il suo esercito si dimezzò a causa di un’epidemia di peste. Abbandonata ogni speranza di prendere la Sicilia, tornò in Francia a mani vuote, per poi morire… di peste.
Anche qui, parla fitto assieme a suo suocero ma nemico Enrico I di Navarra, forse accomunati dal dolore nei confronti di Filippo IV il bello, figlio del primo e genero del secondo.

Enrico I di Navarra
(1244-1274) fu un re che viene ricordato in modo positivo, perché attento alle vicende dei suoi sudditi. Sembrerebbe non aver avuto problemi con altri membri della nobiltà. Probabilmente è nell’Antipurgatorio perché conduceva una vita disordinata, morì proprio per obesità e aveva un carattere facile alle risse. Questo può essere un parallelismo con il VII Canto dell’Inferno, dove sono condannati gli avari e gli iracondi.


Pietro III (1239-1285) e Alfonso III d’Aragona (1265-1291), rispettivamente padre e figlio, Carlo I d’Angiò (1226-1285), Arrigo III d’Inghilterra (1207-1272) e Guglielmo VII di Monferrato (1240-1292), seppur per Dante godano di maggiore stima, in quanto dotati di virtù politiche, sono comunque complici in vita di aver reso la situazione europea così disastrosa, soprattutto perché i loro eredi non hanno ereditato nulla di buono dai padri.

Insomma, con questo canto Dante ci fa sapere, che è inutile sprecare il nostro tempo terreno in rivalità effimere, ma che dovremmo impiegare con sapienza il nostro potere, per fare del bene a chi verrà. Se non sappiamo come, possiamo sempre affidarci a Dio.
Probabilmente, proprio perché qui Dante stesso è uno spettatore silenzioso, questa è stata una lezione preziosa per lui in primis.

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