Appassionati come siamo del secolo Novecento, non ci siamo fatti sfuggire “L’archivio dei destini”, di Gaëlle Nohant ed edito, nella sua versione italiana, da Neri Pozza.
La non accettazione della diversità (culturale, religiosa, politica di pensiero), le bombe che cadono sulla Striscia di Gaza in un Europa istituzionale completamente assente, ragazzi che vengono presi a manganellate mentre manifestano per la pace, sono tutti sintomi di una malattia che si chiama razzismo di cui il mondo ne è ancora afflitto, anche se non abbiamo bandiere rosse con la svastica nera a ogni metro a ricordarcelo.
“Ogni nazione impone la sua versione della Storia. Decidere quali sono gli eroi e le vittime è sempre una scelta politica. Un racconto ufficiale che permette di negare quanto è avvenuto e soffoca le voci discordanti, impedendo ai cittadini di affrontare la propria storia.”
Irène si trasferisce da giovanissima dalla Francia in Germania, a Bad Arolsen.
Nel 1990 trova lavoro in un centro di documentazione dove, a Seconda Guerra Mondiale finita, gli uffici si occupano di ritrovare le vittime del regime razzista.
Irène non è certa di riuscire nell’impresa, ma fin da subito, grazie anche alla sua grande amicizia con la mentore Eva, si dimostra capace, meticolosa, amante di un lavoro che è entrato sempre più prepotente nella sua vita, causando – forse – la rottura del suo matrimonio e la crescita troppo veloce di suo figlio Hanno, a cui – sempre forse – non è stata abbastanza presente.
Passano gli anni, ci troviamo nel 2016 con una tecnologia e consapevolezza tali che aiutano Irène nel suo lavoro, tanto che le viene affidato un nuovo compito, più complesso: restituire gli oggetti trovati nei campi di concentramento ai discendenti dei legittimi proprietari. Ma come capire a chi appartenevano un Pierrot di stoffa, un medaglione con la Vergine, o un fazzolettino con tanti nomi ricamati?
Irène non sembra preoccuparsene più di tanto, perché sa che è ciò che deve fare e la risposta le verrà data comunque, in un qualche modo. Si avventura così tra Lublino, Varsavia, Parigi e Berlino, sfiorando la tremenda sorte dei prigionieri di guerra – non solo di origine ebraica – e quella di chi è rimasto ad attendere il ritorno dei propri cari.
Il lavoro diventa ossessione, ed è strano per tutti tranne per lei, perché dopotutto il passato dell’Europa riguarda tutti, anche se ne siamo inconsapevoli. Irène sa che ognuno di noi può avere un legame profondo con quanto successo, e lei stessa conoscerà il suo.
“A quindici anni, sua nonna è stata internata qui come «asociale». Non corrispondeva all’ideale femminile del Terzo Reich. Dopo la guerra non ha ricevuto nessun risarcimento. Come i rom e i sinti, gli omosessuali, i disertori e le puttane, non era accettabile come vittima.”
Non solo ebrei, come abbiamo già detto, nelle continue ricerche di Irène troviamo donne e uomini cattolici o atei che hanno deciso di combattere per la propria patria; ci sono bambini dai tratti ariani tolti alle famiglie biologiche per darli in adozione a quelle tedesche; ancora, poliziotti tedeschi pentiti… insomma, dal romanzo e dalle storie di testimoni conosciamo una guerra, una situazione politica che ha scombussolato le vite e la quotidianità di chiunque era al mondo in quel periodo.
Le SS diventano sempre più il nemico, anche nella stessa Germania dove lo sguardo cieco della manipolazione mentale riacquista sempre più la propria vista con il passare del tempo, con le madri che non vedono più tornare i figli e bambini che soffrono la fame senza saperne il motivo.
Come si spiega la guerra, quando questa sembra infinita e senza risoluzione? Come si torna alla normalità quando chi sta al Governo si disinteressa dei tuoi stenti? Ci si continua a fidare di un Capo di Stato, o si cerca la giustizia privata? E noi, che avremmo fatto?
“«Noi vogliamo che la gente rifletta sulla continuità della storia, sulle nuove forme di fascismo. Oggi vengono bruciati i centri di accoglienza per i migranti e i campi rom. Si respingono i transgender, gli omosessuali, gli ebrei, tutti quelli che disturbano… È venuto il momento di aprire gli occhi.”
Ci permettiamo di aggiungere che a sud-est dell’Italia vengono uccisi esseri viventi solo perché palestinesi da chi un tempo ha subito le stesse atrocità. Ed è proprio per questo che adesso vogliamo porci la domanda andando più in profondità, puntando il dito direttamente sulla prima persona singolare: “Io che sto facendo?”
Giorno dopo giorno ci arrivano notizie sempre più sconcertati che non possiamo più tenere le distanze da quanto sta accadendo, perché ci riguarda – o ci riguarderà – in prima persona.
Quando le guerre di oggi finiranno, perché prima o poi lo fanno tutte, ci saranno nuovi confini geopolitici e quelle linee, seppur immaginarie, saranno state tracciate da tutti noi, nessuno escluso. Quando le vedremo, così come abbiamo visto il cambiamento in una Germania divisa in due e poi riunificata, in un U.R.S.S. poi tornata Russia, per non menzionare l’Istria o la Dalmazia, inevitabilmente andremo a pensare a tutto quello che abbiamo fatto nel mentre si poteva evitare.
“Trovare il tempo per amare ha il sapore della scommessa, tutta la sua vita ne è scombussolata.”
È vero che da comuni cittadini il nostro agire non sarà ricordato nei libri di Storia, ma è anche vero che ogni gesto, se nato dall’amore, contribuirà a salvare una vita, anche se probabilmente non lo sapremo mai.
“L’archivio dei destini” parla proprio di questo: delle persone anonime che hanno dato luce e speranza a chi è rimasto, nuova vita a chi è arrivato dopo e un esempio alla collettività venuta a conoscenza di gesta eroiche.
Perché è vero che in tempi difficili si prendono decisioni difficili, ma c’è sempre la possibilità per le scelte d’amore.
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