Dopo aver parlato del “Ratto di Proserpina” del Bernini, oggi ci avviciniamo a un’altra sua opera, collocata come l’altra presso la Galleria Borghese: “Apollo e Dafne”.
Si tratta dell’ultima commissione che venne affidata a Gian Lorenzo Bernini dal cardinale Scipione Caffarelli Borghese e l’artista se ne occupò dal 1622 al 1625, perché nel mentre stava già lavorando al “David” per il cardinale Alessandro Peretti. Sin dal suo compimento, quest’opera non ha mai smesso di suscitare interesse, finendo per essere definita una delle opere più belle di Bernini.
Iniziamo raccontando la storia del mito. Apollo era noto per la sua superbia e, dopo aver ucciso il serpente Pitone, non potè non vantarsi con Cupido che, stizzito e geloso, preparò due frecce: una appuntita per far nascere l’amore e una spuntata per farlo morire. Scagliò quindi la prima su Apollo e la seconda verso la ninfa Dafne, figlia del dio del fiume Peneo. Per la divinità colpita non ci fu nulla da fare e, innamorato perso della fanciulla, corse verso di lei. Dafne, però, era di tutt’altro avviso e, terrorizzata, cominciò a fuggire. La sua corsa, però, non fu abbastanza celere e il dio era ormai in procinto di acciuffarla. In un disperato tentativo di salvezza, la giovane rivolse al padre una preghiera, chiedendo di essere trasformata in qualcosa che non sarebbe potuto essere profanato. Il padre, quindi, accolse la sua richiesta e la trasformò in una pianta d’alloro, che divenne da allora sacra al dio Apollo. Da quel momento, la divinità si cinge il capo delle sue foglie e verrà considerato un dettaglio da mettere sulla testa degli artisti (pensate anche solo a come viene rappresentato Dante).
Nella scultura è evidente lo sforzo di Apollo nella corsa, evidenziato dalla muscolatura delle gambe in tensione. Le braccia sembrano voler abbracciare delicatamente la ninfa, mentre i capelli sono arricciati all’indietro come se la corsa fosse appena finita. Il corpo di Dafne, invece, sembra slanciato, come per controbilanciare la presa della divinità. I piedi sono ancorati al suolo, mentre le sue unghie cominciano ad allungarsi e a trasformarsi in radici. La ninfa sta cambiando lentamente, tanto che le braccia, alzate al cielo, stanno assumento la forma di rami e foglie, scolpite in una maniera così delicata da sembrare vive. Bernini, infatti, per questo tipo di dettagli sembra si servì di Giuliano Finelli nel 1624. Lo sguardo di Apollo è un misto di delusione, stupore e frustrazione, perché sa che non potrà avere la ragazza per sé, giungendo ormai troppo tardi. Le labbra dischiuse danno al volto una connotazione di stanchezza, ma anche di desiderio che rimarrà inespresso. Dafne, d’altro canto, è animata da emozioni contrastanti, come si può vedere dallo sguardo e dalla bocca: è terrorizzata, perché sa che Apollo l’ha raggiunta, ma anche sollevata e stanca, perché suo padre ha esaudito il suo ultimo desiderio di salvezza. Il vestito di lei che si sta sfilando, rivela il desiderio della ninfa di preservare la propria virtù ed esso la accompagna nella metamorfosi, divenendo quindi la corteccia stessa dell’albero di alloro.
Il marmo viene scolpito in due modi diversi: liscio per delineare i corpi dei soggetti dell’opera, ma anche grezzo nel momento in cui deve essere rappresentato il ruvido del tronco. Bernini ha realizzato talmente bene l’opera da sembrare una scena teatrale, viva, che si manifesta davanti agli occhi dello spettatore. Non bisogna solo contempletare la bellezza dell’opera, ma immedesimarsi con essa, percepire i sentimenti che animano i suoi soggetti. Il modo in cui Apollo e Dafne sono rappresentati, lo slancio dei loro corpi, rimandano a due curve che lasciano degli spazi vuoti che alleggeriscono l’opera: i due, infatti, sembrano delicati e leggeri, mentre si proiettano verso l’alto. Il marmo, in tutto ciò, sembra ancora una volta perdere la sua connotazione di durezza, per divenire qualcosa di morbido, dai capelli al vento del dio alle sottili dita della ninfa, in procinto di diventare fronde.
Alla base dell’opera, il cardinale Maffeo Barberini, che come abbiamo già detto nell’articolo sul Ratto di Proserpina sarà il futuro Papa Urbano VIII, scrisse un altro dittico: “L'amante che insegue le gioie della bellezza effimera alla fine si trova foglie e bacche amare nella mano.”
Se avete un pomeriggio libero, vi consigliamo vivamente una visita presso la Galleria Borghese, nel cuore di Roma, di passeggiare tra le opere d’arte così estranee allo scorrere del tempo, capolavori che fanno parte del nostro patrimonio artistico italiano e a cui troppo spesso non diamo il giusto peso.
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