Freyja è una dea del pantheon nordico abbastanza conosciuta. Famosa per la sua bellezza e per essere anche la dea della fertilità, questo personaggio non si è mai limitato al ruolo “romantico”, quanto più alla rappresentazione della divinità guerriera. Nella mitologia nordica, infatti, i valorosi guerrieri che si erano distinti in battaglia avevano l’accesaso al Valhalla, una sorta di Paradiso dove ricevevano onore e gloria eterna, passando l’esistenza a coltivare i piaceri del corpo. A portarli in questo mondo degli eroi, a sceglierli, c'erano Odino e Freyja. Di per sé, non è mai stata la semplice rappresentazione dell’amore e della bellezza, ma anche della guerra, in quanto dotata di una grande forza di volontà, autorità e autostima, con una intelligenza sopraffina così da renderla sia tanto amata che temuta. Un comandante autorevole quanto affascinante, il cui nome significa “La Signora”. Nata dalla stirpe dei Vani (divinità minori), lei, suo padre e suo fratello passarono alla stirpe maggiore, ovvero degli Aesir, per sigillare un patto di alleanza tra i due gruppi.
Freyja appare in primissimo piano. Il suo bel volto, mostrato per metà, è reso vivido dal rosso scuro delle labbra carnose e dai capelli del colore del grano, impreziositi da un tocco rossiccio, che le incorniciano il viso. Dall’occhio sinistro scendono le famose lacrime d’oro versate, secondo il mito, per amore del marito. Secondo la leggenda, infatti, Freyja era sposata con Óðr (che per assonanza sembra riprendere il nome di Odino, il padre degli dei) e la lasciava spesso da sola a casa con le due figlie, Hnoss and Gersemi (entrambi i nomi si traducono con “tesoro”), e lei soffriva molto la sua assenza.
Lo sfondo è scuro, le cui pennellate sembrano ricordare il tronco nodoso di un albero e le sfumature della sua chioma sembrano incoraggiare il pensiero di una solitudine della dea al tramonto, al calar del sole. Il pianto le arrossa anche la parte appena sotto l’occhio visibile, tratto che la rende, già di primo acchitto, diversa da un prodotto di Klimt, le cui figure femminili erano solite avere le labbra e le gote animate da un rosso acceso.
Lo sfondo è scuro, le cui pennellate sembrano ricordare il tronco nodoso di un albero e le sfumature della sua chioma sembrano incoraggiare il pensiero di una solitudine della dea al tramonto, al calar del sole. Il pianto le arrossa anche la parte appena sotto l’occhio visibile, tratto che la rende, già di primo acchitto, diversa da un prodotto di Klimt, le cui figure femminili erano solite avere le labbra e le gote animate da un rosso acceso.
Ma perché quest’opeva veniva proprio attribuita a Klimt? La risposta risiede proprio nelle lacrime della dea: l’utilizzo dell’oro di Bisanzio era infatti un marchio di fabbrica dell’artista. A distinguere i due autori, però, arriva in nostro soccorso la pennellata, così fluida per Klimt e così corposa e piena per Zilberman. la particolarità di quest'ultima, sta anche nelle sfumature della palpebra chiusa, a rappresentare una dea dal trucco perfetto.
L’artista francese è riuscita a cogliere il pianto di dolore unito alla disperazione di un'assenza, una che appesantisce l’animo leggero della dea. Una divinità che nel pianto non si distingue più da una donna qualunque, nonostante la sua bellezza non venga mai trasfigurata dal dolore.
L’artista francese è riuscita a cogliere il pianto di dolore unito alla disperazione di un'assenza, una che appesantisce l’animo leggero della dea. Una divinità che nel pianto non si distingue più da una donna qualunque, nonostante la sua bellezza non venga mai trasfigurata dal dolore.
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