Lo Snyder Cut è sulla bocca di tutti, del resto è un film che viene sicuramente preceduto dalla sua fama. I fan lo hanno voluto, lo hanno acclamato, lo hanno desiderato firmando petizioni su petizioni affinché la Warner si convincesse a dare una seconda opportunità al regista per poter ultimare l’opera che è stato costretto ad abbandonare in fase di post-produzione.
Come in molti sapranno, infatti, era il lontano 2017 quando in sala era approdata la Justice League firmata Joss Whedon. Zac Snyder aveva abbandonato la lavorazione del film a causa di un lutto importante e non era stato in grado di portare avanti la sua idea che si estendeva per almeno altri 3 film. Subentrato Whedon, il lavoro è stato deragliato da quelli che erano i binari principali, facendo approdare in sala un film con notevoli difetti che non era piaciuto a gran parte del suo pubblico. Chi ha visto quella versione cinematografica ricorderà le battute scontate ed evitabilissime, la slow motion usata come un virtuosismo, la CGI in grado di ferire gli occhi del pubblico e scene rigirate male.
Ma finalmente Zac ha avuto la possibilità di portare al termine quella che era la visione originale, o quanto possibile di essa, con un film di ben quattro ore.
Ma vale la pena passare quattro ore davanti a uno schermo per rivedere un film che, in un certo senso, abbiamo già visto?
Ci sono le 4Muse per poter rispondere a tale domanda attraverso la nostra analisi.
Come è possibile intuire già dal titolo o, comunque, dall’identità che questa pellicola porta con sé, è quasi superfluo sottolineare che quanto portato in scena da Snyder sia impregnato della sua estetica. Questa, infatti, non è semplicemente la Justice League, ma è la sua “director’s cut”. Chi, infatti, ha visto altri suoi film può riuscire a rintracciare le caratteristiche del suo modo di fare cinema. Il montaggio e le scelte adoperate sono tipiche della sua estetica e i paragoni non sono difficili da fare.
Procedendo con ordine e cercando di analizzare le principali critiche che è possibile muovere, concentriamoci sull’uso della slow motion. Il rilassamento del tempo in determinate scene, al contrario di quanto era stato fatto nel 2017, serve a Snyder per poter cercare di porre l’attenzione su precisi istanti. Quasi come se si volesse porre un accento su un elemento che ci permette di far evincere un’espressione o uno sforzo in grado di dare ancor più carattere al personaggio che si muove in scena. Una cosa che lo stesso regista ha fatto in altre sue opere come, ad esempio, il calcio che Leonida da in 300; scena resa iconica proprio dal rallentamento che è stato adoperato, perché tramite esso si riesce a comprendere la forza e la violenza di quel colpo, oltre che la natura estremamente protettiva del gesto. Ciò permette di conferire al racconto un sapore epico, perché per l’appunto viene data la giusta attenzione a espressioni, sforzi e alle fatiche compiute in quel frangente.
Ma se da una parte il tempo appare rilassarsi, dall’altra nelle sue 4 ore il tutto viene ben cadenzato. Il ritmo del film, infatti, non appare mai pesante né viene forzatamente spezzato da battute che non hanno niente a che vedere con i personaggi. In sostanza lo Snyder Cut non tenta di scimmiottare lo stile che la Marvel è stata in grado di trovare con il suo universo cinematografico. Al contrario, egli trova la sua chiave di lettura contribuendo a creare quei personaggi grigi tipici dell’universo DC.
Gli eroi della Justice League seguono una loro morale, sempre tentati dall’oscurità e mai del tutto buoni. Combattono tra di loro e si mostrano molto più umani perché vittime, molto spesso, del fraintendimento. Gotham e i suoi criminali, ad esempio, sono per lo più soggetti fuori di testa che vengono rinchiusi all’interno di un manicomio, non in una prigione. Proprio perché negli albi a fumetti gli autori hanno sempre cercato di mettere in luce le fragilità della psiche umana.
Quindi l’inserimento di battute capaci di forzare una sorta di comicità risultano fuori contesto, spingendo i personaggi “out of character” (cioè fuori dalla loro caratterizzazione originale), dimenticandoci di tutte quelle che sono le loro singolari particolarità.
Appare intuibile che le scene a lungo criticate - come le battute o le modifiche rigirate in post-produzione - siano da attribuire a Whedon, visto che con la sua versione Snyder ha fatto anche un po’ da scarica barile in tal senso. Almeno non ci siamo dovuti nuovamente sorbire battute del tipo “so che parli con i pesci”. Molto interessante appare il fatto che risultino più intriganti gli attimi in cui i dialoghi in scena sono quasi assenti, piuttosto che le vere interazioni che vengono fatte. A tal proposito solleviamo l’attenzione sul primo reale difetto: i dialoghi. Qualcosa di comprensibile, comunque, per via dei tempi di lavorazione, ma che comunque sono stati in grado di risollevare quello che era l’intero clima respirabile con la prima versione della pellicola. Vi è molta più dignità per i personaggi e, sicuramente, vi sono meno battute ridicole perché ci si concentra sull’idea di riuscire a creare una vera e propria squadra in grado di scendere in campo unita.
Gli scherzi e i giochi che vengono portati in scena, in questo caso, infatti, servono più per creare un vero e proprio cameratismo che altro. Il modo con cui Berry si approccia ad Arthur, ad esempio, fa proprio parte di quella loro caratterizzazione di squadra. Anche perché molte battute vengono proprio fuori dai loro primi fallimenti in combattimento. Quindi ancor di più si concretizza questa visione di squadra.
Ovviamente avere un minutaggio così lungo ha aiutato molto, perché si ha avuto la possibilità di prendersi i giusti tempi per poter esporre ogni singolo personaggio. Non dimentichiamoci, infatti, che qui per la prima volta venivano introdotti personaggi che finora non avevamo avuto modo di vedere negli altri film Warner-Dc: Flash e Cyborg, in particolare, hanno un po’ la loro genesi in queste quattro ore. E la ricostruzione della loro storia, così come gli approfondimenti con le amazzoni e gli atlantidei, sono fondamentali per la riuscita della pellicola.
Conosciamo, così, il peso del passato di Victor, conosciamo il suo dolore, il suo dono, ma anche il modo con cui inizia ad accettare la sua seconda possibilità. Ha la possibilità di usare le sue abilità per il bene comune, non per nascondersi.
Berry, che continua a vivere nel passato, vorrebbe poter aiutare il padre ingiustamente accusato di aver ucciso la moglie. E questa sua proiezione verso il passato gli servirà durante lo scontro finale per poter essere la risoluzione finale: “Tu vivi nel passato, creati un futuro” gli dice il padre e se lo ripete mentre corre indietro nel tempo. Un’attenzione a ciò che fa emergere ancor di più la sua caratterizzazione che sicuramente non si ferma a quella di ruolo comico che spezza la serietà della narrazione.
Potremmo continuare a scrivere di questo film, perché c’è ancora molto da dire, in particolare sulle scene finali, ma vogliamo cercare di alleggerire la nostra recensione fermandoci qui in questo istante.
Se siete interessanti, infatti, a saperne di più non vi resta che restare collegati con 4Muses e magari esprimere qui sotto il vostro interesse!
Nessun commento:
Posta un commento