venerdì 3 dicembre 2021

#Eventi: Gabriele Mainetti (Freaks Out)

Lunedì 22 novembre si è concluso l’Heroes Film Festival presso la Casa del Cinema di Villa Borghese e nel giorno di chiusura l’ospite più atteso era certamente Gabriele Mainetti. Classe 1976, è stato il regista di “Lo chiamavano Jeeg Robot” e del film che è ancora in sala “Freaks Out”. Nonostante i numerosi impegni, il regista è riuscito a ritagliarsi del tempo per partecipare al festival delle maestranze, parlando della sua esperienza alla regia e rispondendo alle domande dei ragazzi presenti in sala. Va detto che di solito chi sta dietro la macchina affida le scelte “di contorno” ai reparti a essi dedicati, ma Mainetti ha fatto quel passo in più che rende l’opera, Freaks Out appunto, qualcosa di ancora più personale: ha scritto perfino le musiche e la colonna sonora in generale.

Certo, Mainetti ha ammesso di non essere molto ferrato sul reparto costumi, ma ha prestato attenzione al colore, a come inserire il personaggio nel contesto e come il suo colore si debba staccare (o unire) dal fondo. Per Freaks Out, ammette, è stato come lavorare alla costruzione di un quadro, in equilibrio tra risvolto cinematografico e forza simbolica. Tutta questa operazione è stata come mettere in scena una danza, dove tutto deve cooperare alla riuscita del progetto. Uno dei vantaggi di Mainetti è il fatto che viene dal teatro, ragiona quindi su come muovere i soggetti sulla scena. Non si affida solo al montaggio, non fa muovere solamente la macchina tra primi piani e corpo intero, no, lui fa muovere tutto in simbiosi. Le opzioni di regia sono tre: o si muove la ripresa, o si muove l’attore o si muovono entrambi con le varie distanze. In Freaks Out, Mainetti ha fatto sì che tutto riuscisse alla perfezione e grazie alla pandemia i tempi si sono rallentati, così da lavorare con la dovuta calma. Riguardo il livello di apprezzamento che ha percepito della pellicola, ha ammesso:

Il film ha più livelli di lettura: il primo è quello del puro intrattenimento, in cui c’è un rapporto più ludico con lo spettatore, che sceglie per istinto un cinema più americano. Dopo quello che è successo durante la pandemia, i ragazzi hanno sofferto più di tutti lì a casa, incollati sul divano a guardare quello che il cinema italiano gli aveva vomitato sulle piattaforme e quindi quando hanno avuto la possibilità di uscire, hanno voluto dare i soldi a un altro tipo di cinema. Questo [Freaks Out] appartiene a quel genere. A livello qualitativo dimostra che il cinema italiano non è da meno quando ci prova.”

Nel film ci sono diverse citazioni, tra cui “Guerrieri, giocate a fare la guerra” (da “I guerrieri della notte”, 1979). Le generazioni più giovani potrebbero non capire i riferimenti, però funzionano lo stesso. In sostanza si gioca con lo spettatore che appartiene a quel periodo storico, si copia e si fa proprio l’immaginario di un altro, senza perdere la propria voce. Anche se si prendono degli spunti, tutto deve essere organico nella narrazione.

Per il casting, Mainetti ha fatto fare i provini anche agli attori importanti. Claudio Santamaria, ad esempio, non è stato selezionato di default, così come Giorgio Tirabassi e Pietro Castellitto.

Ci si sceglie insieme [attore e regista] e l’attore sta sul set perché si è sentito scelto, non perché è famoso. L’attore famoso presente senza provino potrebbe sabotare il suo stesso lavoro. L’attore deve respirare tutta la scena.

Anche sul rapporto generale con gli attori è stato molto chiaro:

È viscerale, ho fatto l’attore per quindici anni, quindi penso di intuire quali sono le problematiche di ogni attore o almeno mi sforzo di capirle. Per Freaks Out ho scelto di ritirarci in una casa di campagna per una settimana in cui abbiamo lavorato sull’ improvvisazione e sulla ricerca del personaggio. È un qualcosa che non si fa quasi mai.”

Quando gli è stato chiesto un consiglio, Mainetti ha ammesso di aver fatto un lungo percorso. Quando aveva vent'anni, era in auge il cinema d’autore. C’era aria pesante perché questo tipo di lavoro confondeva l’impegno sociale - che deve essere tutelato -  con la visione dell’autore, che racconta un cinema solo suo, irriproducibile (basti pensare a Spielberg), che ha a che fare con la propria identità. L’autore mette se stesso nel racconto. Il regista deve saper trovare un equilibrio tra ciò che è e la tecnica. Una volta una persona importante gli disse “Tu vuoi fare il regista? Ma col vissuto che hai che devi fa’?” - nel senso che non ha vissuto chissà cosa-. Fu una frase che lo mortificò all’inizio, poi lo spronò perché arrivò a pensare “Allora io uso il mio vissuto e le mie esperienze, la mia Roma, il mio quartiere, i miei amici e li trasfiguro in una visione di cinema che mi piace” In Freaks Out in Franz e Matilde ci sono le sue paure. Quando alcuni personaggi parlano, ripetono frasi che gli sono state dette nella vita.

Nel pubblico erano presenti molti ragazzi che vogliono intraprendere una carriera legata al mondo del cinema e il consiglio di Mainetti è stato quello di fare un passo alla volta, fino a scendere a patti con la propria parte più oscura. Un giovane regista deve imparare il proprio limite, tra quanto c’è di proprio e quanto è fruibile, perché il cinema italiano è troppo spesso caduto nel tranello di raccontare i fatti propri. Questo è sfidare il cinema italiano. Invita i giovani a non spaventarsi di fare qualcosa, se ne devono fregare se qualcosa viene male e fare ciò che più apprezzano, anche se possono creare all’inizio stupidaggini. A vent’anni, dice, si può osare, si può giocare, mentre arrivati ai quaranta ecco che iniziano i paletti autoimposti.

Dovete divertirvi, fare anche le cose più stupide ma più libere, perché nella libertà sei tu che scegli che raccontare e capirai chi sei. Tu sei le storie che racconti.

L’Heroes Film Festival ha deciso di premiarlo per il coraggio e l’ostinazione con la quale seguita a sfidare il cinema italiano, per la passione contagiosa che sa trasmettere a tutte le maestranze e noi non possiamo che esserne pienamente d’accordo.

 

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