Erano giorni che Turchina viaggiava sola, sotto al sole. Da quando aveva lasciato il gregge non aveva incontrato più nessuno. Solo, a volte, la propria ombra, l’unica a farle compagnia.
All’inizio si era spaventata. “Ehi chi c’è là?”. Aveva cominciato a correre disperata per far perdere le proprie tracce, ma l’altra le era sempre alle calcagna. “Vattene!” gridava, “lasciami in pace!”.
Poi, rassegnatasi al fatto che andassero alla stessa velocità e nella stessa direzione, si fece coraggio. D’altronde era così raro trovare qualcuno con lo stesso ritmo nel sangue! Così, aveva cominciato a parlarle e ad ascoltare con gli occhi quello che aveva da dire.
“Anche tu qui?”
“Sei di passaggio?”
“E’ meglio che ti guardi alle spalle!”
Se vi foste trovati a passare di là, vi assicuro che non avreste avuto chiaro chi domandasse a chi e chi rispondesse a chi. Di certo entrambe si guardavano l’un l’altra le spalle, come in uno stretto abbraccio, e questo non era cosa di poco conto in un luogo desolato come quello.
Camminare tutto il giorno era dura, ma la notte l’avvolgeva senza pietà. Anche Ombra la lasciava sola. Turchina non aveva ancora capito come mai, ma tutte le sere, al tramonto, la sua compagna di viaggio se ne andava.
La prima volta che accadde cominciò a chiamarla. “Ombra? Ombra? Dove sei? Dove ti sei nascosta? Guarda che non mi piacciono gli scherzi!”. Ma di Ombra, nessuna traccia. Solo silenzio. “Ah, forse vuole giocare a nascondino”, pensò tra sé e sé… E quindi quatta quatta, muovendosi sulle punte per non farsi sentire, provò a cercarla dietro i piccoli mazzetti d’erba, dentro alle screpolature del terreno assetato, tra i sassolini addormentati, sotto la sua pancia e i suoi piedi dove l’aveva già trovata a mezzogiorno...ma niente!
“Ombraaaa… Ombraaaa…? Dove sei? Non mi sto affatto divertendo? Vieni fuori!” belò sempre più forte. La voce le tremava.
“Bella forza”, direte. “La voce delle pecore trema sempre!”. Eh, ma questa volta era proprio diverso. Di pecore me ne intendo, ma non ho mai sentito una voce così tremolante, me la ricordo ancora. Le battevano i denti, le zampe cominciarono a farle Giacomo Giacomo, il colore della sua lana impallidì. Ah, sì, perché dovete sapere che aveva il vello turchino!
Gli occhi spalancati, le orecchie tese, il pelo dritto. La palla di fuoco in pochi secondi scivolò sotto l’orizzonte. L’ultima striscia di rosa-arancio e…il buio. Poteva udire solo l’affanno del suo respiro. Solo un udito fino come il mio avrebbe potuto sentire anche il battito del suo cuore che spingeva come per uscire fuori dal suo petto. Dentro quella statua come di sale, foglie turbinavano mosse da un vento impetuoso. “E ora? Cosa mi capiterà? Se urlo non mi sentirà nessuno…” “Si, se urlassi, magari qualche male intenzionato potrebbe sentirti…”le avrebbe di certo detto Ombra… Il mare abitava dentro Turchina, ma non una goccia salata sgorgò dai suoi occhi. Le premeva contro e faceva male. Se aveste potuto appoggiare il vostro orecchio contro il suo, lo avreste sentito anche voi lo sciabordio delle onde che andavano e tornavano per poi ripartire.
Non so dirvi se fosse più grande la paura di lasciarsi attraversare da quelle onde, di andare in pezzi o la paura che non ci fosse poi nessuno a raccoglierli e a rimetterli insieme o tutte queste cose insieme…
Poi il buio cominciò ad accendersi, piano piano. “Il manto bucato del cielo”, lo chiamavano in famiglia. A lei questa cosa aveva sempre fatto un po’ impressione. Cominciò a ricordare i litigi con i suoi fratelli su chi accendesse la luce al di là. L’unica cosa sulla quale si trovavano tutti d’accordo era che dovesse essere davvero gigante per aver una lampadina che illuminasse tutti quei fori a perdita d’occhio… O chissà, magari dall’altra parte c’era un altro sole che faceva luce. E quindi un altro prato, un altro gregge, altre pecore… Ah, se solo avesse potuto dare una sbirciatina!!! Quel pensiero un po’ la sollevò. E ripensò a casa. Quante pecore!!! Cominciò a pensare alle altre pecore, alla piccola Penny, a Slotty, a Little P, e a contarle e… si addormentò all’ombra invisibile dell’unico albero della piana.
La luce dell’alba la svegliò. Era ancora viva! Salti, giravolte, strillini: che felicità! Ed ecco anche Ombra a festeggiare con lei. “Ma dove ti eri cacciata? Che si fa così? Mi hai abbandonata nel bel mezzo della notte nera senza neanche avvisare e salutare!” le disse con le sopracciglia aggrottate. Non una risposta. In un altro momento questo comportamento l’avrebbe fatta arrabbiare, si sarebbe aspettata almeno un paio di scuse, ma questa volta era così contenta! Il giorno era appena iniziato e le sorprese con lui.
Cammina, cammina, i denti cominciarono a batterle sempre più veloci, il suo alito formava nuvolette ogni volta che usciva dal corpo e toccava l’aria, gli abbondanti peli si drizzavano un po' per chiuderle i pori a trattenere il calore: sì, stava facendo sempre più freddo! Gli venne in mente la barzelletta che raccontava sempre quel giramondo di mr Fogg: “Qual è il colmo per una pecora? Avere la pelle d’oca!”. E giù risatine solitarie, che lei non aveva mai compreso. Mai fino a quel momento. Ecco un sorriso sbocciarle sul volto. Che anche mr Fogg fosse passato di lì? Quel pensiero la scaldò.
Il cielo cominciò a imbiancarsi, a sfaldarsi piano piano su di lei, sulla sua ombra e su tutto ciò che la circondava. Dall’alto cadevano piume ghiacciate prima lentamente, poi sempre più veloci, ne potevi sentire la melodia. In men che non si dica una mano di bianco immacolato colò sulla piana.
E fu allora che, tra la foschia densa e quel vorticare di piume, vide avanzare un puntino sempre più grande, sempre meno rotondo. Anche lui solo. Cantava. E ballava affondando sempre più le gambe come lei nella neve. Eccoli uno di fronte all’altra. La sorpresa e la meraviglia vinsero per entrambi lo spavento dell’estraneità: per lei di vedere quello che imparò essere un uomo, per l’altro di vedere una pecora color turchino.
Quell’uomo dalla folta barba bianca, dalle grandi mani, dal largo sorriso e dalla pancia prominente si mostrò molto affettuoso con Turchina, la trattava come una vera regina: si sentiva bella e speciale come mai prima. Il suo essere diversa dalle altre pecore ora la faceva sentire unica e preziosa per lui. Tutte queste attenzioni la imbarazzavano e quando questo succedeva arrossiva: a ogni complimento diventava sempre più rossa. Era così che dapprima era transitata dal viola, poi al violetto, al color glicine e piano piano verso un bel rosso sempre più acceso, carminio come le bacche del pungitopo, il colore preferito da quell’uomo che passava tanto del suo tempo a lavorare, a leggere lettere, talvolta a scriverne, a fabbricare oggetti e a prendersi cura di quelle grandi pecore marroni con le corna, come un buon pastore. E’ così che un giorno Turchina, di nome e non più di fatto, ormai dimentica di Ombra, pensò di ricambiare l'affetto ricevuto donandogli la sua morbida lana per farsi un berretto e un caldo vestito per i lunghi viaggi che facevano insieme nelle fredde notti, in lungo e in largo, in su e in giù. Fu così che i suo riccioli furono tosati, la lana cardata, filata e tlin, tlin, tlin, via di sferruzzamenti. Tlin, tlin, tlin…
'…Drin, drin, drin, Ryan, svegliati, è arrivato Babbo Natale!', così la mamma squillò. In men che non si dica Ryan aprì gli occhi e, ancora in pigiama, in un balzo fu sotto l'albero dove il fratellino, ignaro delle sue scoperte notturne, stava scartando già i primi regali, mentre al suo cuore si era appeso un sorriso.
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