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Usi & Costumi

venerdì 25 ottobre 2024

#DivinaCommedia: Canto VIII - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo l’ottavo canto del Purgatorio. Cala il buio, il sole scompare all’orizzonte e scopriamo cosa accade all’Antipurgatorio quando arriva la notte.

Come sempre parliamo con delle anime, questa volta è il turno di un caro amico di Dante, Nino Visconti e un membro di una famiglia che diventerà importantissima per il Poeta: Corrado Malaspina.

Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una parte di noi.
 
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;

quand’io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.

Ella giiunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.

Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolce note,
che fece me a me uscir di mente;

e l’altre poi dolcemente devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ‘l trapassar dentro è leggero.

Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle;_

e vidi uscir de l’alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.

Verdi come fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.

L’un poco sovra noi a star si venne,
e l’altro scese in l’opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.

Ben discernëa in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l’occhio si smarria,
come virtù ch’a troppo si confonda.

«Ambo vegnon del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via».

Ond’io, che non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m’accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle.

E Sordello anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai».

Stiamo nel tramonto, l’ora del giorno in cui la malinconia viene a bussare alla nostra porta. Il sole muore lentamente all’orizzonte e in noi nascono pensieri nostalgici. L’essere umano non riesce a vivere il buio, ne ha una paura ancestrale e in effetti ancora oggi, nonostante l’elettricità che illumina ogni angolo delle nostre strade, se ci fermiamo un attimo a osservare il tramonto, è quasi impossibile non perderci nei meandri del passato, nel ricordare con un sorriso più o meno amaro quanto abbiamo fatto.


Una delle anime si alza e, attirata l’attenzione delle altre, comincia a intonare il “Te lucis ante” (trad. “Te prima del termine della luce”) l’antico canto gregoriano che si intona al momento della Compieta e che prepara i fedeli alla notte, i quali richiedono a Dio di liberarli dalle paure e dagli incubi.
La devozione dell’anima è così profonda che Dante si abbandona in uno stato di estasi e, come spesso accade quando stiamo in meditazione profonda, riesce a vedere una verità molto chiara.

Ci invita quindi a prestare attenzione, perché anche per noi sarà tutto così diretto.

Dall’alto scendono due angeli con due spade infuocate, anche se prive di punte. Sono vestiti di verde, come le foglioline appena nate, i loro capelli sono biondi, ma il Poeta non riesce a scorgere i volti.
Credo non serva la spiegazione, ma la farò lo stesso. I tre colori (verde, giallo e rosso) rappresentano le tre verità teologali: fede, speranza e carità.
Il verde, ovviamente, è la speranza e il fatto che a Dante ricordi il colore delle foglie appena spuntate fa pensare che sia la speranza che si accende lentamente nel momento in cui abbandoniamo il nostro Inferno.
Il biondo dei capelli rappresenta la carità, mentre il rosso delle spade la fede.
Il volto degli angeli non è visibile perché Dante non è ancora pronto a guardare in faccia tutto ciò. Le spade sono prive di punta perché dal momento in cui Cristo è morto sulla croce per tutti noi, il diavolo non ha più bisogno di essere scacciato con la forza, basta una spada simbolica per farlo.

Sordello spiega agli erranti che questi due angeli provengono dall’Empireo e ogni sera difendono la valle dal serpente che scende.
È proprio questa la grande verità: quando sentiamo che si sta avvicinando il buio non dobbiamo più spaventarci, ma anzi, guardare con fede, speranza e carità al Divino, richiedere il Suo aiuto certi che verremo senz’altro accontentati.

A questo punto i tre possono solo scendere per la valle e ripararsi, visto che le altre anime saranno sicuramente lieti di vederli e parlare con loro.

Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.

Tem’era già che l’aere s’annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei
non dichiarisse ciò che pria serrava.

Ver’ me si fece, e io ver’lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ‘ rei!

Nullo bel salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant’è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».

«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l’altra, sì andando, acquisti».

E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.

L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse».

Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado,

quando sarai di là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li ‘nnocenti si risponde.

Non credo che la sua madre più m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.

Per lei assai di lieve si comprende
quanto in femmina foco d’amor dura,
se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.

Non le farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura».

Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.

Scendono solo pochi passi che un’anima sembra guardare fisso Dante. Stiamo sull’imbrunire, senza possibilità di una lampadina, quindi non si distingue tutto e subito, ma bastano solo pochi secondi per i due amici di riconoscersi.

Dante ritrova il suo amico Nino Visconti (1265 circa – 1296), Giudice di Gallura e tra loro non mancano ricche parole d’affetto.
Nino gli chiede da quanto stia qui e Dante risponde raccontando la sua storia. Quando dice che in realtà è vivo sia Nino che Sordello ne rimangono stupiti. Il secondo, infatti, non si era accorto dell’ombra di Dante proprio perché in prossimità del tramonto. Così chiede spiegazioni a Virgilio, mentre Nino chiama a gran voce un’altra anima per farle vedere i prodigi del Signore.

Visconti sa benissimo che a nessuno è dato sapere la ragione per cui Dio compie i suoi miracoli, per questo non perde tempo nel chiedere a Dante come e perché sia stato scelto per attraversare l’altro mondo. Al contrario, lo prega, una volta uscito di lì, di andare dalla figlia Giovanna, (1291-1339) ancora bambina, e dirle di pregare il più possibile per l’anima del padre. Sa che non può chiederlo alla moglie Beatrice d’Este (1268-1334) perché nel frattempo questa si è già risposata con Galeazzo I Visconti, Signore di Milano.
Dalle parole di Nino vediamo come il primo matrimonio di Beatrice fosse per amore, mentre il secondo solo per interesse e infatti non perde tempo nel considerare la futura tomba della moglie come non degna di nota, in quanto porterà lo stemma della vipera di Milano.

Fatto divertente: alla sua morte Beatrice predispose affinché ci fosse anche lo stemma del primo marito, molto probabilmente aveva letto la Divina Commedia.

Fino a qui possiamo vedere tre forti sentimenti legati all’amore: l’affetto scaturito dal matrimonio e da una sincera amicizia, ma anche il dolore per il comportamento del consorte rimasto in vita che ha di nuovo preso marito solo per interessi personali.

Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.

E ‘l duca mio: «Figliuoil, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che ‘l polo di qua tutto quanto arde».

Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov’eran quelle».

Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi là ‘l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché ‘n là guardasse.

Da quella parte onde non ha riparo
la picciola valla, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro.

Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad ora la testa, e ‘l dosso
leccando come bestia che si liscia.

Io non vidi, e però dicer non posso,
come mosser li astor celestïali;
ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.

Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.

Gli occhi di Dante sono attirati dalle tre stelle che vede in Cielo, anch’esse in rappresentanza delle tre virtù teologali e mentre è preso dalla contemplazione, arriva il serpente che striscia e sibila tra l’erba e i fiori. Il riferimento al giardino dell’Eden è praticamente chiaro.
Veloci come dei lampi, i due angeli si scagliano su di lui e lo cacciano così rapidamente che neanche Dante saprebbe dire come abbiano fatto.

Ancora, non dobbiamo davvero temere il male perché se ci affidiamo a Dio, saprà come scacciarlo ancora prima che noi possiamo accorgercene.

L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.

«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,

cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.

Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».

«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?

La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;

e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.

Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia».

Ed elli: «Or va; che ‘l sol non si ricorda
sette volte nel letto che ‘l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,

che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,

se corso di giudicio non s’arresta».

Nel frattempo è arrivata anche la seconda anima: Corrado Malaspina, non il primo del suo nome molto famosi ai tempi, ma un suo diretto discendente. Lui non vuole affidarsi alle preghiere degli altri, chiede solo a Dante notizie sulle sue terre della Val di Magra e zone limitrofe.


Dante risponde enfatizzando il loro nome. Lui non vi è mai stato, ma la fama è così piacevolmente nota che tutti sanno esattamente chi sono i Malaspina e quale grande nobiltà d’animo abbiano.
Corrado, allora, gli profetizza che tra sette anni lo stesso Poeta vedrà con i propri occhi quanto delle chiacchiere sui suoi discendenti siano vere. Infatti, al momento del suo esilio, sarà proprio accolto da loro.

Al prossimo mese per vedere come continuerà il viaggio di Dante e Virgilio…

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