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Usi & Costumi

venerdì 28 febbraio 2025

#DivinaCommedia: Canto XII - Purgatorio

Continua il nostro viaggio alla scoperta della Divina Commedia dal punto di vista esoterico.


Oggi analizziamo il dodicesimo canto del Purgatorio. Siamo pronti a lasciare la prima cornice, quella dei superbi e addentrarci nella prossima, che riguarderà gli invidiosi. Oltre a Dante e Virgilio vedremo anche l’angelo dell’umiltà, con il suo gesto tanto delicato quanto importante.


Al solito, vi ricordiamo che analizziamo il canto solo ed esclusivamente dal punto di vista esoterico, comparandolo con quello che è stato ed è il nostro cammino spirituale.
Questi articoli, insomma, servono solo come spunti di riflessione su noi stessi, dove ogni protagonista che incontriamo è una nostra parte
 
Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m’andava io con quell’anima carca,
fin che ‘l sofferse, il dolce pedagogo.

Ma quando disse: «Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l’ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca

dritto sì come andar vuolsi rife’mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.

Io m’era mosso, e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com’eravam leggeri;

ed el mi disse: «Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue».

Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch’elli eran pria,

onde lì molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a’ piï dà de le calcagne;

sì vid’io lì, ma di miglior sembianza
secondo l’artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.

Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.

Vedëa Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da l’altra parte,
grave a la terra, per lo mortal gelo.

Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte.

Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ‘n Sennaàr con lui superbi fuoro.

O Nïobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!

O Saùl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!

O folle Aragne, sì vedea io e te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l’opera che mal per te si fé.

O Roboàm, già non par che minacci
quivi ‘l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch’altri il cacci.

Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.

Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.

Mostrava la ruina e ‘l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t’empio».

Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.

Vedeva Troia in cenere e caverne;
o Ilïòn, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!

Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l’ombre e’ tratti ch’ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?

Morti li morti e vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant’io calcai, fin che chinato givi.

Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!

Dante e Oderisi da Gubbio procedono ancora lenti e curvi, quando Virgilio dice al primo di lasciare il secondo, perché in Purgatorio ogni anima deve procedere con la sua pena. Dante, non essendo ancora morto, non può prendersi la condanna di Oderisi. Così ascoltato il richiamo del suo Maestro, si rimette in posizione dritta anche se i suoi pensieri continuano a essere rivolti all’umiltà e alla voglia di lasciare andare la superbia.
Mentre cammina sorride tra sé notando come il loro incedere sia più leggero rispetto a prima, ma non riesce ancora a dirlo a Virgilio perché questi gli dice di prestare attenzione a ciò che è raffigurato ai loro piedi: ancora, Dante rimane estasiato dalla realtà delle immagini con le immagini dei personaggi incise come se fossero tangibili. Ricordiamo che questo accade perché è Dio stesso ad averle raffigurate, esattamente come ha fatto con noi. E chi ci dice che questa nostra vita non sia in realtà un’immagine creata da Dio?

Senza raccontare tutte le storie delle figure che vede Dante – perché sono tante, e altrimenti questo articolo diventerebbe lungo quasi quanto la Divina Commedia stessa – ritroviamo scene di superbia punita con personaggi suddivisi in tre categorie: quelli puniti da Dio (Lucifero, Briareo, i giganti e Nembrot), quelli puniti da un intimo tormento, direi quindi da sé stessi (Niobe, Saul, Aracne e Roboamo) e quelli puniti dai nemici e da coloro cui fecero del male (Erifile, Sennacherib, Ciro e Oloferne).

Proprio perché le immagini erano quasi reali, Dante torna a ricordarci di pentirci già in vita del peccato della superbia perché è il più importante e grave tra tutti: senza la superbia, infatti, non esisterebbero tutti gli altri.

Più era già per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l’animo non sciolto,

quando colui che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso.

Vedi colà un angel che s’appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l’ancella sesta.

Di reverenza il viso e li atti addorna,
sì che i diletti lo ‘nvïarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!».

Io era ben del suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che ‘n quella
materia non potea parlarmi chiuso.

A noi venìa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.

Le braccia aperse, e indi aperse l’ale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolmente omai si sale.

A questo invito vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?».

Menocci ove la roccia era tagliata;
quivi mi batté l’ali per la fronte;
poi mi promise sicura l’andata.

Passato del tempo, Virgilio dice a Dante di muoversi, che non è più tempo di guardare le immagini perché c’è un angelo che sta venendo verso di loro, pronto a portarli alla seconda cornice. Dante è ormai abituato ai modi di Virgilio e al fatto che in Purgatorio non si debba mai perdere tempo, così non se la prende per l’ammonimento.

Alza gli occhi e vede l’angelo indicare loro la strada, molto più agevole. Poi questo rivolge loro una frase (che scriverò già parafrasata) di una portata enorme: “Sono pochissimi [gli uomini] che rispondono a questo invito: o uomini, nati per volare in cielo, perché vi lasciate abbattere da un vento così vano?”. Dopodiché le ali dell’angelo toccano delicatamente la fronte di Dante.

Ecco una scomoda verità per tutti noi che pensiamo di non meritare il bene: l’unico desiderio di Dio nei nostri confronti è quello di volerci felici. Chiunque allora direbbe: “E perché esistono le guerre? E perché esiste il dolore? E perché esiste la violenza?” allora vi chiedo io: Dio [di qualsiasi religione] ha mai ordinato la guerra? Ha mai ordinato la violenza? O ha sempre indicato di comportarci con amore, ammonendo ogni azione volta verso il male? Chi è, quindi, che compie il male? Dio o l’uomo?
E attenzione alla risposta supponente che vede il Dio ebraico mandare il diluvio o devastare Sodoma e Gomorra: semplicemente (molto semplicemente, in maniera così spiccia che potrei esse scomunicata) in quei casi Dio accelera la fine dell’uomo che con i suoi comportamenti si sta già eliminando da solo. Potremmo dire che sia un atto di eutanasia (ve l’ho detto che rischiavo la scomunica), o la natura che si prende la rivincita sull’abuso dell’inquinamento, del consumismo o quello che volete voi dell’uomo.

Insomma, l’angelo si chiede: perché, oh tu uomo, che sei la creazione più importante per l’universo, che sei l’essere voluto da Dio a sua immagine e somiglianza, fai di tutto per non elevarti, e sei così (direi insicuro, ignorante) da cedere a un peccato così inutile come la superbia (matrice, appunto, di tutti gli altri)?

Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,

si rompe del montar l’ardita foga
per le scalee che si fero ed etade
ch’era sicuro il quaderno e la doga;

così s’allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l’altro girone;
ma quinci e quindi l’alta pietra rade.

Noi volgendo ivi le nostre persone,
Beati pauperes spiritu!’ voci
cantaron sì, che nol diria sermone.

Ahi quanto son diverse quelle foci
da l’infernali! ché quivi per canti
s’entra, e là giù per lamenti feroci.

Già montavam su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti.

Ond’io: «Maestro, dì, qual cosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?».

Rispuose: «Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com’è l’un, del tutto rasi,

fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti».

Allor fec’io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ‘cenni altrui sospecciar fanno;

per che la mano ad accertar s’aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta;

e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che ‘ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:

a che guardando, il mio duca sorrise.

Salendo la scala Dante e Virgilio vengono accolti dal canto “Beati i poveri di spirito”, intonato dagli angeli guardiani. Il Poeta, che ben ricorda come erano accolti quando dovevano scendere nei cerchioni dell’Inferno, si meraviglia di cotanta differenza.

Ora, ammaliato da questa bellezza chiede a Virgilio il perché si senta molto più leggero, senza avvertire più nessuna fatica nel cammino.
Virgilio gli risponde che più procedono verso il Purgatorio, più le P che ha sulla fronte si sbiadiscono e quando una viene cancellata totalmente, come accaduto poco fa con il tocco dell’angelo, si proverà sempre più piacere nel proseguire.
Incredulo, Dante si tocca la fronte e conferma quanto detto da Virgilio: ora ha solo sei P.

Così succede a tutti noi: immettersi nel cammino spirituale è faticoso inizialmente e spesso si ha la voglia di fermarsi, soprattutto quando si è attraversato tutto l’Inferno. In Purgatorio la sosta è necessaria quando è buio (quindi quando viviamo momenti bui), perché la saggezza insegna che non ci si può muovere d’impulso quando non si sa dove andare.
Aggiungendo l’umiltà a questo insegnamento, vediamo come il tutto poi ci venga naturale e non sentiamo più il bisogno di riposarci, ci sorprendiamo nel ricordarci come eravamo prima e ringraziamo il Cielo che ora viviamo in un’altra ottica, realtà.

Al prossimo mese, quando incontreremo gli invidiosi!

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