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venerdì 8 novembre 2024

#Racconti: Il peso di sentirsi amati - Prima Parte

Mi parlano insieme, alla rinfusa, diverse voci, anime, diversi pensieri, volti, corpi. Una tavolozza di vite, status sociale, sorrisi e occhi incantati che vogliono stringermi le mani, abbracciarmi, complimentarsi, mentre la ferita dentro di me sanguina di paura.

Le campane iniziano a suonare e io spero che questo lasci le persone libere di tornarsene a casa, proprio come quando al liceo suonava la campanella che metteva la parola fine a una possibile interrogazione. Invece rimangono lì, a ringraziarmi per esserci stata, hanno così tante aspettative su di me, mentre la mia ferita sa bene che un giorno saranno tutti delusi.
La vita è così: il moto infinito di un pendolo che oscilla da una parte all’altra, e quanto più andrà verso destra, tanto tornerà a sinistra. Annuisco immaginandomi a casa, al buio, sotto le coperte a piangere fino ad addormentarmi. Non voglio tornare a sinistra, non dopo essere stata a destra.

Non so quando tutto ebbe inizio, forse quando presi la decisione di vivere a Londra, o forse quando scappai di casa in seconda media, per essere ritrovata solo dopo due ore. Forse ancora prima, quando da bambina provavo con tutta me stessa a giocare a mamma e figlia, a imboccare le bambole o pettinare le Barbie, eppure dopo qualche minuto l’impulso mi diceva di mollare tutto e giocare alla dottoressa, alla cantante, alla segretaria, a qualsiasi cosa non fosse essere una madre.

La libertà è stato sempre un valore fondamentale nella mia vita: sono l’ultima figlia, la sesta, per l’esattezza, con una gemella per essere ancora più precisa.
Con due camere da letto, una cucina che fungeva da salone, un bagno e un balconcino che poteva ospitare a stento Bulbasaur, il carlino che i miei decisero di prendere per responsabilizzare i più grandi ma che ebbe solo l’effetto di divenire il loro settimo figlio, ciò che ricordo della mia infanzia è solo un enorme peso sul petto.
Dormivo con i miei fratelli adolescenti e i bambini, dividevo il letto singolo con la mia gemella che aveva paura del buio e ogni sera mi stringeva come fossi la sua ancora. Quando mi spiegarono da dove arrivano i bambini, pensavo sempre: “Ma non ne ha abbastanza? Abbiamo passato nove mesi attaccate come cozze”. Eppure la lasciavo fare, perché mi sembrava giusto così e perché a scuola, come a casa, mi difendeva sempre.

Sono sempre stata timida, un’amante dell’introspezione e della solitudine. Se questo a casa non veniva neanche notato dai miei genitori, che forse mi reputavano l’unica figlia decente, quella che non dava problemi, o pensieri, a scuola ero sempre spinta a socializzare. Se ci penso ho ancora i brividi.
Quando andavo in giardino speravo sempre ci fosse anche la classe di mia sorella, così potevamo scambiarci, potevo dare l’illusione che stessi giocando con qualcuno, mentre me ne rimanevo nel luogo proibito, quello lontano dagli sguardi delle maestre, a leggere un libro o a osservare le formiche.
Ma quando la sua classe non c’era, io dovevo saltare la corda, giocare a nascondino, essere la figlia di qualcuno. Effettivamente una volta iniziato, il gioco mi piaceva tantissimo, era la partenza che mi bloccava. Il momento delle decisioni, di radunarsi in gruppo, di scegliere un gioco. Non sono mai stata una leader, lasciavo sempre che gli altri decidessero e mi facevo andare bene tutto.

I miei fratelli più grandi sceglievano i cartoni da vedere, e quando mia sorella gemella premeva per “Piccoli problemi di cuore” invece che qualcosa con robot e dinosauri, dentro di me pregavo solo che la spuntasse, senza mettermi in mezzo. E lei non mi dava mai nessuna colpa. Quando ho capito che probabilmente dentro di sé si sentiva come mi sentivo io ogni notte passata senza potermi girare, ho iniziato a dire la mia.
Improvvisamente la tv in salone dava solo Terry e Maggie, Rossana, Sailor Moon, mi sono scoperta inventrice dei più grandi giochi da cortile, tutte le bambine a scuola, nelle palazzine limitrofe, in oratorio, attendevano il mio arrivo per scoprire in quale mondo le avrei portate. A un certo punto cominciarono a venire persino i maschi, senza che nessuno li prendesse in giro. La mia gemella divenne qualcosa di simile a un’assistente, mi aiutava a fare le squadre, mi dava il tempo. I miei fratelli più grandi continuavano a giocare a calcio, ma lanciavano sempre un’occhiata verso di me, come facevano prima, quando dovevano sincerarsi che nessuno mi obbligasse a fare qualcosa che non volevo. Ora, però, i loro sguardi avevano anche un po’ di ammirazione. I due adolescenti, mia sorella grande e mio fratello, erano quasi odiati dalla mia comitiva perché il loro arrivo significava anche la fine dei giochi: avevano l’incarico di riprenderci e riportarci a casa.

Insomma, forse è proprio dalla mia infanzia che ho scoperto di avere questo lato da leader, questa apertura al mondo, questo voler mettere armonia in ogni parte e luogo. Ma per quanto mi piaccia esternarmi, c’è un’altrettanta parte di me che cresce assieme alla popolarità e che brama per rimanere in solitudine. Mia sorella, comunque, poi smise di dormire accanto a me. Forse si sentiva già abbastanza protetta durante il giorno.

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