Nella sala d’attesa del mio medico curante, tra i tanti cartelli informativi, ve ne è uno che ci mette in guardia dalle diagnosi fatte su internet. Da ipocondriaca doc lo leggo a ripetizione, sperando così mi si ficchi in mente l’idea che non devo cedere alla ricerca su Google ogni volta che avverto uno strano sintomo.
Sì, perché non bastano due sedute da quaranta o cinquanta minuti a dare una diagnosi, figuriamoci un video di tre minuti. Per capire quanto è pericoloso trattare di certi temi sui social, che per lo più sono popolati da menti giovani e facilmente influenzabili, dobbiamo analizzare tutti i video virali che trattano l’argomento psicologia. Chi parla ha spesso un tono calmo ma autorevole, sa il profondo valore dell’aesthetic con fondi ordinati, dai colori pastello che infondono calma e fiducia. I migliori sono quelli che hanno come sfondo la propria libreria, ostentando così tanti volumi da infondere speranza che ne abbiano letti almeno la metà.
Ma se si analizza a fondo il discorso di quel video, si comprende quanto si stia facendo del semplice e banale “therapy speak”. Questo fenomeno porta termini terapeutici nel linguaggio comune, etichettando comportamenti quotidiani in diagnosi cliniche.
Il tuo amico fa sempre ritardo? Potrebbe essere narcisista. Il tuo partner prende in giro un tuo sogno? Eh, vivi sicuramente in una relazione tossica.
Capiamo bene che senza una reale comprensione dei significati clinici questo uso improprio e superficiale dei termini può portare a fraintendimenti e a una visione completamente distorta sia delle proprie emozioni che delle relazioni, soprattutto per tutte quelle persone che hanno ancora poca esperienza con il rapportarsi con l’altro, tipico della fase adolescenziale.
Avere risposte veloci per ogni argomento è pericoloso anche per tutte quelle persone insicure o spaventate che preferiscono una rapida ricerca online a un consulto con professionisti. Se questo è pericoloso già per quanto spiegato nel paragrafo precedente, immaginiamo ora se la persona in questione cerca risposte su quello che sente o prova. Come può reagire se uno sconosciuto sostiene che un suo comportamento, che sono sempre del tutto neutri e dipendono da tantissimi fattori come la ripetività, il contesto sociale, l’intenzione e altro ancora, è malsano? C’è chi prenderà il telefono e per segnarsi un appuntamento da uno psicologo, ma ci sarà anche chi si chiuderà ancora di più in sé, con la terribile paura di sbagliare o di sentirsi inadeguato.
Vorrei ricordare qui, come faccio sempre nel mio quotidiano che solo un professionista qualificato, dopo varie sedute di analisi, può fornire una diagnosi accurata e un giusto percorso terapeutico. Nessun altro. nessun appassionato di psicologia, nessun neolaureato, nessuno psicologo da strapazzo che ha come unica fonte un commento.
Mi reputo una grande sostenitrice dello psicologo di base, perché la salute mentale è importante tanto e quanto quella fisica, quindi sono sempre contenta se più persone hanno modo di riconoscere e affrontare i propri disagi, ma la diffusione di informazioni/bombardamenti – come le chiamo io – può comportare anche una continua autoanalisi, un sovraccarico emotivo che di certo non aiuta. È come se una persona con febbre continuasse a prendere la tachipirina ogni trenta minuti. Bene non fa. Inoltre è ormai scientificamente dimostrato che la saturazione di contenuti sui social riduce la soglia dell’attenzione, figuriamoci quando si tratta con troppa banalità temi davvero complessi.
Dovremmo essere noi adulti per primi a mettere un veto ai contenuti che vogliamo pubblicare o condividere, ricordando anche che i dubbi sono fondamentali nella vita, perché fanno sì che possiamo accettare anche l’incertezza e la complessità delle emozioni umane.
Dopotutto la psicologia insegna anche che non è un bene volere sempre tutto sotto controllo.
L’ultima volta allo studio, dove non prende internet e quindi ho parecchio tempo per riflettere, ho pensato che oggigiorno oltre alle facili autodiagnosi fisiche ci si mettono anche quelle psicologiche.
I guru da strapazzo che impazzano su TikTok o Instagram, pronti a farci riconoscere con assoluta facilità ed esattezza i cinque segnali del narcisista di turno, a darci la diagnosi del nostro trauma infantile, a trattare di ansia o ADHD, sono sempre dietro lo scroll intaccando la già vacillante ragione di un qualsiasi soggetto ipocondriaco.
Se da una parte tutto ciò è positivo perché ci aiuta a rendere la psicologia più accessibile a tutti, guardandola come un modo per migliorarci e non più come una materia confinata ai pazzi, dall’altra l’estrema banalizzazione delle sedute di terapia rivela un uso improprio di concetti clinici altamente complessi.
I guru da strapazzo che impazzano su TikTok o Instagram, pronti a farci riconoscere con assoluta facilità ed esattezza i cinque segnali del narcisista di turno, a darci la diagnosi del nostro trauma infantile, a trattare di ansia o ADHD, sono sempre dietro lo scroll intaccando la già vacillante ragione di un qualsiasi soggetto ipocondriaco.
Se da una parte tutto ciò è positivo perché ci aiuta a rendere la psicologia più accessibile a tutti, guardandola come un modo per migliorarci e non più come una materia confinata ai pazzi, dall’altra l’estrema banalizzazione delle sedute di terapia rivela un uso improprio di concetti clinici altamente complessi.
Sì, perché non bastano due sedute da quaranta o cinquanta minuti a dare una diagnosi, figuriamoci un video di tre minuti. Per capire quanto è pericoloso trattare di certi temi sui social, che per lo più sono popolati da menti giovani e facilmente influenzabili, dobbiamo analizzare tutti i video virali che trattano l’argomento psicologia. Chi parla ha spesso un tono calmo ma autorevole, sa il profondo valore dell’aesthetic con fondi ordinati, dai colori pastello che infondono calma e fiducia. I migliori sono quelli che hanno come sfondo la propria libreria, ostentando così tanti volumi da infondere speranza che ne abbiano letti almeno la metà.
Ma se si analizza a fondo il discorso di quel video, si comprende quanto si stia facendo del semplice e banale “therapy speak”. Questo fenomeno porta termini terapeutici nel linguaggio comune, etichettando comportamenti quotidiani in diagnosi cliniche.
Il tuo amico fa sempre ritardo? Potrebbe essere narcisista. Il tuo partner prende in giro un tuo sogno? Eh, vivi sicuramente in una relazione tossica.
Capiamo bene che senza una reale comprensione dei significati clinici questo uso improprio e superficiale dei termini può portare a fraintendimenti e a una visione completamente distorta sia delle proprie emozioni che delle relazioni, soprattutto per tutte quelle persone che hanno ancora poca esperienza con il rapportarsi con l’altro, tipico della fase adolescenziale.
Avere risposte veloci per ogni argomento è pericoloso anche per tutte quelle persone insicure o spaventate che preferiscono una rapida ricerca online a un consulto con professionisti. Se questo è pericoloso già per quanto spiegato nel paragrafo precedente, immaginiamo ora se la persona in questione cerca risposte su quello che sente o prova. Come può reagire se uno sconosciuto sostiene che un suo comportamento, che sono sempre del tutto neutri e dipendono da tantissimi fattori come la ripetività, il contesto sociale, l’intenzione e altro ancora, è malsano? C’è chi prenderà il telefono e per segnarsi un appuntamento da uno psicologo, ma ci sarà anche chi si chiuderà ancora di più in sé, con la terribile paura di sbagliare o di sentirsi inadeguato.
Vorrei ricordare qui, come faccio sempre nel mio quotidiano che solo un professionista qualificato, dopo varie sedute di analisi, può fornire una diagnosi accurata e un giusto percorso terapeutico. Nessun altro. nessun appassionato di psicologia, nessun neolaureato, nessuno psicologo da strapazzo che ha come unica fonte un commento.
Mi reputo una grande sostenitrice dello psicologo di base, perché la salute mentale è importante tanto e quanto quella fisica, quindi sono sempre contenta se più persone hanno modo di riconoscere e affrontare i propri disagi, ma la diffusione di informazioni/bombardamenti – come le chiamo io – può comportare anche una continua autoanalisi, un sovraccarico emotivo che di certo non aiuta. È come se una persona con febbre continuasse a prendere la tachipirina ogni trenta minuti. Bene non fa. Inoltre è ormai scientificamente dimostrato che la saturazione di contenuti sui social riduce la soglia dell’attenzione, figuriamoci quando si tratta con troppa banalità temi davvero complessi.
Dovremmo essere noi adulti per primi a mettere un veto ai contenuti che vogliamo pubblicare o condividere, ricordando anche che i dubbi sono fondamentali nella vita, perché fanno sì che possiamo accettare anche l’incertezza e la complessità delle emozioni umane.
Dopotutto la psicologia insegna anche che non è un bene volere sempre tutto sotto controllo.


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